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 2018  agosto 12 Domenica calendario

A tu per tu con Riccardo Muti

«Si dirige da qui». Punta l’indice sinistro verso il polso destro, Riccardo Muti. Parte esterna, quella che nel gesto sul podio sembra sollevare la musica da terra e portarla verso l’aria. È facile da imitare: il braccio naturalmente si solleva. Ma, e dopo? Con il braccio nel vuoto, che non tocca niente, il grande mistero della direzione d’orchestra diventa concreto. Negli occhi verdi, sottili, del direttore passa un lampo. Maestro, cosa vuol dire dirigere? «È la cosa più semplice: dirigere vuol dire battere il tempo, in un breve spazio. Lo diceva Toscanini. Che però aggiungeva: questo non vuol dire fare musica. Perché fare musica, insieme, è la cosa più difficile». Stasera Muti sarà al Festival di Salisburgo, alla guida dei Wiener Philharmoniker, orchestra e coro, nella Sinfonia n.2 di Schumann e nella Messa in mi bemolle maggiore di Schubert, per il tradizionale concerto di Ferragosto (repliche il 14 e il 15) che gli viene affidato in esclusiva, dalla morte di Karajan, ma qui siamo a Ravenna, Teatro Alighieri, finita la sessione di lavoro del mattino con i giovani, gli allievi selezionati della Italian Opera Academy e gli orchestrali della Cherubini. Tutti sul palcoscenico, nella fucina concreta del lavoro.
Perché Muti non fa mai teoria. La musica è per lui artigianato concreto, una macchina che deve funzionare. Dunque che si può insegnare e imparare. Anche se ha bisogno del lungo scavo nel tempo: «Non preoccuparti se non ti riesce subito», conforta il giovane direttore orientale, in prova sul Brindisi nel secondo atto del Macbeth. «Io ci ho messo cinquant’anni per capirlo». E sottovoce: «A voler dirigere bene, è difficile».
Non è solo tecnica, è pensiero. Ma il pensiero senza tecnica non passa. «Lo capisci quando devi portare verso la tua idea interpretativa cento-duecento persone. Che non sono strumenti, senz’anima. Sono individui. Sono musicisti. Li devi abbracciare, controllare, contagiare di energia. Loro ti amano, non ti amano, ti odiano... Non puoi cercare di cambiarli. Non dire: che grande gioia è essere qui con voi! Devi essere te stesso, presentarti per quello che sei. Ma intanto devi guardarli, nelle espressioni. E il gesto non serve tanto a scandire uno-due-tre, bensì a trasmettere un pensiero musicale: il gesto è frase».
È imbevuto di cultura umanistica, Riccardo Muti. E si sente. Per la chiarezza del discorso, per il piacere della citazione in latino, sempre esatta. A ogni incontro, in tanti anni di interviste, prove, tournée – la prima nel 1990, quando la Scala andò come Filarmonica per la prima volta in Giappone, per un lungo giro di concerti – con un pizzico di curiosità stiamo pronti ad appuntarci la nuova frase antica. Arriverà? Certo. Questa volta imprevedibile. E proprio alla fine, sui saluti.
Dal camerino tutto specchi dell’Alighieri siamo passati a un veloce spuntino ai “Battibecchi”, osteria di quelle di una volta, governate dal grembiule della signora Nicoletta, che solo per la frittata con le patate ti viene voglia di portarla ovunque. «Deliziosa». Muti mangia veloce. Ha due gesti, caratteristici, che ripete spesso: spia discreto l’orologio, al polsino, sotto la giacca (giacca sempre, anche con il solleone) e pulisce le lenti dei piccoli occhiali, che inforca solo quando deve leggere. La spiata all’orologio viene accompagnata da un impercettibile commento senza parole, di insofferenza. Come se il tempo corresse sempre troppo.
«Diceva Carlos Kleiber, il mio grande amico: come sarebbe bello dirigere un’orchestra senza dirigere. E non era un gioco di parole. Significava che spesso i movimenti nell’aria distraggono. La visività del gesto diventa più importante del contenuto». Lei ha due orchestre, Maestro: estreme. Perché una è la Chicago Symphony, l’ammiraglia delle americane, e l’altra è la Cherubini, formata da diplomati dei Conservatori di tutta Italia. Come cambia il lavoro del direttore? «Sono due mondi, due culture, due nature. Molto diverse, come oggi non succede così spesso come un tempo, quando ogni orchestra possedeva una propria anima, un suono, una identità. E li difendeva con fierezza. Oggi c’è più globalizzazione, i musicisti tendono a trasmigrare, le scuole diventano simili. Comunque, per rispondere alla domanda: la Chicago è una super-potenza, i Cherubini sono fuoriclasse in nuce. Con entrambe miro agli stessi obiettivi, pur con mezzi diversi. Se devo dirigere una Sinfonia di Beethoven o di Bruckner è chiaro che da un lato parto con un’orchestra che già le conosce bene, e dunque devo affidarle solo il compito straordinario dell’interpretazione, mentre dall’altro, con un’orchestra giovane, si parte dai primi elementi conoscitivi. Ma anche questo è un lavoro interessante. Perché nella genesi primigenia possono apparire elementi nuovi e rivelatori».
Siamo alla seconda delle cinque parole che vogliamo proporre a Muti: dopo dirigere e orchestre, abbiamo maestri, paure, sentire/vedere. Intanto sul tavolo arrivano le lasagne. Non proprio estive. Ma come le fanno qui – dicono – sono capaci solo le mamme (romagnole doc). Il direttore guarda la parete di fronte e commenta sornione: «Cosa vorrà dire quel disegno, firmato da Tonino Guerra? È dedicato alla cuoca, certo. È un vaso di fiori, ma è un po’ formoso, le decorazioni che fanno pensare ad altro, non trova?». Affiora un sorriso, la voglia di scherzare conviviale. Niente deviazioni, barra al centro: dobbiamo continuare, terminare prima di quel gesto dell’indice che scopre l’orologio... Dunque avanti, sulla lasagna fumante: chi le manca di più, tra i grandi di ieri? «Mi manca Karajan, con cui ho avuto un legame personale e che ha creduto in me, trentenne. Mi manca Kleiber, l’amico delle lettere scherzose, dove impallinava tutti gli altri direttori, o dove mi scriveva il decalogo su come si dirige il Rosenkavalier. Punto primo: il Rosenkavalier è un’opera italiana». Opera italiana. Lo dice due volte, Muti. E sorride. Pensando forse all’amico. Pensando certo che nessuno ha ancora diretto il capolavoro di Richard Strauss secondo questa forte indicazione di stile. «Ma più che singole figure, a mancarmi è tutto un mondo, che ho avuto la fortuna di conoscere, quando ero giovanissimo. E che gettava ponti con la grande storia della musica. Penso a Robert Casadesus, che diressi a ventisei anni nel Quarto Concerto di Camille Saint-Saëns: lui pianista straordinario, alla prima prova aprì la parte, sul pianoforte, e io vidi che sul margine bianco aveva annotato le date di tutte le precedenti esecuzioni. La prima, degli anni Trenta, era stata con Toscanini. Che impressione, per me, sul podio. E poi potrei elencare altri: Francescatti, Serkin, Gilels, Tortelier... Christa Ludwig che dopo i Rückert Lieder mi lasciò una rosa rossa sul leggio o Claudio Arrau che prima di ogni concerto mi faceva un inchino dicendo: “Looking forward”, sono in attesa».
Era un mondo di bellezza, di cortesia, di rispetto. «Non voglio fare il laudator temporis acti, ma in questo tempo di velocità, di tecnologia, mi sembra si sia perso lo spazio necessario al pensiero, alla comunicazione dell’arte». Tecnologico Muti non è: fiero del suo vecchio Nokia («Fa anche le fotografie!») scrive a penna e ama i giornali di carta. Non può concepire che esistano in altro formato. E ne è un severo lettore, cacciatore infallibile di notizie.
Proviamo a entrare nel privato, buttiamo lì tutti insieme: ha paure, superstizioni, sogni? «Superstizioni no. Anche se da buon meridionale, che ha conosciuto le prefiche a Molfetta, a casa conservo un discreto arsenale di agli, cornetti, ferri di cavallo, gobbi... Si potrà dire gobbi? Comunque tutto questo è folklore».
«Invece quello che mi fa paura non è la morte. Ma il senso della battaglia persa: dopo tanti decenni di perorazioni, per le molte regioni italiane senza orchestre, per la riapertura dei teatri, per una maggiore formazione di giovani musicisti, non sono stato ascoltato. E non sarò stato l’unico. Ma mi sembra impossibile che non si riesca a colmare questo vuoto culturale nel nostro Paese, che ha fatto nascere la musica».
Muti cita Matera, prossima capitale europea della cultura, priva di istituzioni musicali. E cita i musicisti della Cherubini, strumentisti fantastici: le grandi orchestre li guardano come un vivaio, dove cogliere prime parti pronte, eccellenti. «Il nostro primo violoncello, una musicista della Calabria, ha vinto il posto di concertino alla Scala». Concertino, cioè ai primi leggii. Segno che la musica è ancora un mondo di valori.
E mentre Fabio Ricci, timoniere saldo dell’ufficio stampa di Ravenna Festival, gli mostra una serie di foto di Silvia Lelli, da scegliere, finalmente otteniamo due parole in latino, nuovo tassello per il nostro vocabolario mutiano: Tabulae censuariae, ossia la radice del Tavoliere, nelle Puglie. Appagati, restiamo invece stupiti dall’ultima risposta: tra vedere e sentire cosa è più importante? «Vedere. Me lo ha insegnato Boulez. Ormai cieco, veniva alle mie prove a Chicago e mi diceva: quanta musica non ho visto. Perché possiamo anche studiare per dieci ore ogni giorno, per tutta la vita. Ma non avremo bevuto che un sorso dell’acqua dell’oceano».