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 2018  agosto 11 Sabato calendario

Perché la lira turca è crollata

Ben difficile essere «leader forti» in un mondo di economie aperte. Se ne sta accorgendo drammaticamente in queste ore Recep Tayyip Erdogan, il presidente della Turchia. Ieri ha osservato il crollo della lira turca: a un certo punto del 18% rispetto al dollaro, di quasi il 48% da inizio anno. Ha visto cadere la Borsa e salire i tassi d’interesse sui titoli decennali vicino al 29%. In apparenza imperterrito, rivolto alla popolazione che l’ha rieletto il giugno scorso, ha assicurato: «Non perderemo la guerra economica». E ha ricordato: «Abbiamo il nostro Dio». Patriottismo e religione, segno di tempi duri.
Erdogan è uno dei parecchi «uomini forti» del momento sulla scena internazionale. Il guaio, per lui, è che quando si poggia il proprio potere su muscoli e aggressività è sempre possibile trovare un avversario più forte. Ieri, a crisi turca già in pieno svolgimento, è successo: Donald Trump ha fatto sapere di avere autorizzato il raddoppio delle tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio dalla Turchia. Un po’ perché la lira si è svalutata e va bilanciata, un po’ perché i rapporti tra Washington Ankara «non sono buoni». In effetti, Trump aveva già approvato sanzioni contro due esponenti del regime turco, in seguito alla detenzione di un pastore della Carolina del Nord, Andrew Brunson. Passo non comune verso un Paese della Nato che già aveva messo sotto pressione la finanza turca. Ieri, il secondo colpo, durissimo.
Il conflitto con gli Stati Uniti è però solo una delle ragioni della seria crisi di Ankara: fa immaginare agli investitori esteri e domestici che le distruzioni sui mercati potrebbero aumentare, ma si intreccia anche a una ragnatela di tensioni finanziarie.
A livello generale, il recente aumento dei tassi d’interesse negli Usa ha spinto drappelli di investitori a uscire dalle valute delle economie emergenti per andare sui titoli americani, più sicuri e tornati redditizi. La lira turca ne ha sofferto parecchio. In questa cornice, Erdogan ha convocato le elezioni anticipate, con il chiaro obiettivo di ottenere un mandato forte che gli consentisse di imporre senza discussioni il suo marchio su tutte le decisioni rilevanti per il Paese. Anche questo ha scosso i mercati, scettici sulla sua propensione al nazionalismo economico e al dirigismo autoritario. Scetticismo che è diventato preoccupazione aperta quando, da Londra, ha detto di volere più potere sulla banca centrale (che di fatto non è più indipendente) e quando ha nominato al vertice delle Finanze del Paese Berat Albayrak, suo genero.
A guidare i conti pubblici della Turchia ora c’è insomma un triumvirato – presidenza, Finanze, banca centrale – che, invece di dare certezze, destabilizza. Quando ieri Albayrak ha promesso di tenere sotto controllo i conti pubblici e di ridurre l’inflazione (oggi al 15,4%) e il deficit dei conti correnti (il 7,1% del Pil a inizio anno), la lira ha infatti continuato a perdere valore. Triumvirato non credibile.
Nonostante che il debito estero turco abbia superato il 53% del Pil e le riserve in valuta estera siano in calo, la Turchia non è affatto un Paese fallito: la sua economia è robusta e dovrebbe crescere, anche se meno del previsto, tra il tre e il 4% quest’anno. Ciò che più spaventa gli investitori è che la mentalità autoritaria di Erdogan molto difficilmente ammetterà le difficoltà finanziarie da lui stesso create e ancora meno accetterà le misure necessarie in questi casi, a cominciare da un eventuale aiuto del Fondo monetario internazionale. Risultato: a inizio anno, assicurare sui mercati, contro il rischio di default, dieci milioni di debito turco a cinque anni costava 163 mila dollari, ieri 411 mila.
La situazione è insomma critica. E non solo per Ankara. La Turchia è un’economia emergente tra le più rilevanti. Il Paese fa parte della Nato, anzi è il secondo esercito dell’Alleanza: ha un ruolo strategico notevole, anche per il fatto di essere una cerniera geografica tra Europa e Asia. Nei suoi confini ci sono tre milioni di rifugiati siriani trattenuti sulla base di un accordo con la Ue che se dovesse saltare metterebbe in crisi l’intera Unione, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel. E a capo di tutto, l’ego sempre più grande dell’uomo forte (si vedrà quanto) del regime.