Corriere della Sera, 11 agosto 2018
Monsanto perde la battaglia legale contro il giardiniere: dovrà pagare 289 milioni
NEW YORK Seduto al banco dei testimoni due settimane fa si tormentava le mani, ma la voce era ferma: «Mi batterò fino all’ultimo respiro». DeWayne «Lee» Johnson ha 46 anni, una famiglia, e un cancro alla pelle in fase terminale. Ma la sua ultima, amara battaglia, l’ha stravinta, ieri alle 14.45 ora di San Francisco. Primo tra migliaia di querelanti ha portato a processo e fatto condannare il gigante dell’agrochimica Monsanto, responsabile, a questo punto anche per i giudici, di avergli tolto il diritto a vedere crescere i due figli, di 10 e 13 anni. Il tribunale ha riconosciuto la cancerogenicità del glifosato contenuto nel Roundup e nel prodotto «fratello» Ranger Pro, con cui «Lee» irrorava per proteggerli dalle erbacce gli spazi esterni delle scuole di cui era custode e giardiniere a Benicia, nella Bay Area.
La Monsanto, che ogni anno guadagna dal diserbante lanciato a metà dagli anni Settanta e diffuso in tutto il mondo oltre 4 miliardi di dollari, dovrà pagare a «Lee» 289 milioni tra danni economici e morali e risarcimento punitivo.
Tutto comincia nel 2014, quando Johnson scopre delle strane macchie sulla pelle: i medici diagnosticano in fretta un linfoma non-Hodgkin. «Piangeva soprattutto la notte, quando pensava che io dormissi», ha raccontato commossa durante il processo la moglie Araceli, una infermiera che lavora 14 ore al giorno per pagare le fatture, dividendosi tra una scuola e una casa di riposo. «È terribile quando non puoi prenderti cura della tua famiglia», ha aggiunto lui, la testa rasata, un po’ di barba, il viso in parte risparmiato dalle tremende lesioni che gli hanno invaso il corpo e che la giuria ha potuto esaminare in foto.
Johnson aveva chiamato due volte il numero verde della Monsanto per informarsi di eventuali rischi dopo essersi inzuppato di erbicida per un malfunzionamento dell’innaffiatore, ed entrambe le volte si era sentito promettere, invano, che l’avrebbero richiamato. Sarà il suo datore di lavoro, informato della malattia, ad aprirgli gli occhi e a spingerlo alla denuncia: «Generalmente passano due anni per prendersi un cancro con quei prodotti», gli dice.
La Monsanto – ha spiegato l’accusa nel mese di dibattimento – avrebbe deliberatamente silenziato gli allarmi sui pericoli del glifosato. Lo dimostrerebbero anche le mail interne all’azienda, dove si legge di tentativi di insabbiare studi scientifici sfavorevoli e promuoverne, persino aiutando a scriverli, altri «assolutori», secondo un copione che ricorda le manovre di «Big Tobacco» per nascondere i rischi delle sigarette.
La complessità del processo stava però nel fatto che la pericolosità dell’agente chimico è ancora oggetto di diatribe scientifiche: nel 2015 l’Organizzazione mondiale della Sanità l’ha classificato come «probabile cancerogeno» per gli esseri umani, ma né l’Epa, l’Organizzazione americana per la protezione dell’ambiente, né le agenzie europee per la sicurezza degli alimenti e per i prodotti chimici hanno offerto pareri simili. Ma la giuria è stata netta: «I prodotti avevano rischi potenziali noti al momento della loro produzione e vendita? Sì. La mancanza di avvertenze sui rischi è stato un fattore sostanziale nel causare danno al dottor Johnson? Sì».
Secondo le leggi della California, a «Lee» era stato garantito un processo veloce perché i medici hanno testimoniato che gli resta poco da vivere. Ma ora il verdetto aprirà la strada a migliaia di altri processi dall’Arizona al Nebraska. Nel frattempo la Monsanto è stata acquistata per oltre 60 miliardi di dollari dalla tedesca Bayer, che sta pensando di cambiarle nome.
Sostanza cancerogena o innocuo (ed efficace) diserbante? La diatriba sul glifosato, l’erbicida più diffuso al mondo, non ha per il momento risposta certa, sul piano scientifico.
In attesa di conoscere — se mai vi saranno — risultati definitivi dalle ricerche tossicologiche, l’Unione Europea ha però deliberato di consentire l’uso di tale sostanza sul mercato del continente: una decisione maturata non senza sofferenze, tra ritardi, polemiche e accuse di eccessiva «benevolenza» verso l’industria.
In commercio dal 1974 con il marchio Roundup registrato da Monsanto, il glifosato è stato in realtà utilizzato per decenni in ambito tanto agricolo quanto urbano senza che vi fossero obiezioni di sorta: semplicità di utilizzo, efficacia e basso costo ne hanno fatto rapidamente il disinfestante più diffuso al mondo. Nel 2015, tuttavia, dopo anni di crescenti dubbi e polemiche, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Airc) che fa capo all’Oms ha classificato il glifosato come «probabilmente cancerogeno»: un’etichetta, va detto, che viene attribuita in via precauzionale a sostanze per le quali è stata riscontrata un’evidenza limitata sull’uomo, ma sufficiente sugli animali.
Nello stesso anno, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dato parere esattamente opposto: pur essendo opportuno prevedere dei limiti di utilizzo in via precauzionale, è «improbabile» che il glifosato abbia effetti cancerogeni sull’uomo.
Un via libera segnato dalle polemiche dopo la scoperta da parte di alcuni giornali che porzioni intere del rapporto riprendevano parola per parola il dossier presentato da Monsanto. Dopo numerosi rinvii, lo scorso novembre gli Stati membri dell’Ue hanno comunque preso atto del parere e deliberato di consentire la commercializzazione della sostanza per altri cinque anni.
Ma sulla questione il blocco resta diviso: il gruppo dei Paesi «sconfitti» non ha potuto che piegarsi alle regole decise dal voto a maggioranza qualificata, ma resta molto scettico.
Tra essi l’Italia, che già dal 2016 ha deciso di limitare l’uso del diserbante vietandolo in aree ad alta frequentazione come parchi, giardini, campi sportivi e aree gioco per bimbi.