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 2018  agosto 11 Sabato calendario

Lina Wertmüller: «Io, una Gian Burrasca di novant’anni»

«La mia vita è una festa, viviamola insieme». La frase che Lina Wertmüller prese dal finale poi tagliato di 8 ½ per incorniciare la propria autobiografia (Tutto a posto e niente in ordine) calza anche ora che — il 14 agosto — compirà novant’anni. «Nel girotondo finale del film c’è anche mia madre, lo sa?». Ripercorre la sua vita, la regista, sdraiata sul divano nel salotto Liberty dell’amata casa dietro Piazza del Popolo. Ricordi e aneddoti si affastellano, qualche dimenticanza subito corretta, la puntualizzazione di qualche dettaglio, l’ironia: «Le mie storie sono antiche come le gesta di Federico Barbarossa».
Novant’anni vissuti con temperamento.
«Sempre stata così, fin da ragazzina non sopportavo le ingiustizie, e le mie reazioni forti provocavano guai a volte. Ricordo un’offesa a mio fratello che vendicai mordendo a sangue un ragazzino. E quando, a scuola, mi ritrovai a fare la pupù in classe dopo che invano avevo chiesto di andare al bagno. Davanti alla maestra e alla preside. Ricordo la sensazione piacevole di vedere lo stupore buffo sulle loro facce. La natura di Gian Burrasca fa parte certamente della mia personalità».
Lei lo volle portare in tv con un successo incredibile.
«Era il libro preferito di mia madre… Diventò un fenomeno di costume, grazie anche alla straordinaria bravura di Rita Pavone: nacque un’amicizia che dura ancora».
Tra i suoi primi compagni di viaggio ci sono stati gli occhiali.
«Sì, mia madre era dispiaciuta per me. Io invece ero contenta di poter vedere a fuoco. Tanti colori, poi il colpo di fulmine per quelli bianchi: solari, balneari, regalano subito un clima di festa».
Quando Woody Allen la chiamò per un cameo in "Io e Annie" lei gliene spedì un paio.
«Sì, gli dissi: puoi metterci dietro chi ti pare. Ma poi la scena la fece con lo scrittore Marshall McLuhan».
Lo spettacolo è entrato nella sua vita con Flora Carabella, poi moglie di Marcello Mastroianni.
«Fui cacciata da undici scuole, ma in una di queste ho avuto la fortuna di conoscerla. Bella e ironica, la casa piena di musica e musicisti, un mondo magico. Pensai "ecco, è il mondo di cui voglio essere parte". Iniziai imitando lei, l’amica più grande che faceva teatro».
Cosa ha imparato dal teatro?
«Non posso dire la disciplina, non ne ho mai avuta. Ma il teatro è la grande madre di tutto, mi ha dato la passione. Recitare davanti a un pubblico vivo, che può fischiare».
Si ricorda quando in tournée a Londra litigò con Monica Vitti che non voleva mettere sul palco la stessa tuta informe degli altri?
«È vero, ma sa che non lo ricordavo? Ma non fu un vero litigio e forse lei aveva anche ragione a voler mettere in risalto il suo bel corpo. Sono sempre stata severa, pignola».
Nel suo libro racconta aneddoti esilaranti, dal grande capitombolo di Wanda Osiris con la gonna gigantesca a quando Renato Rascel restò appeso a un cavo e cadde contro il sipario.
«Ho sempre avuto un certo gusto per il grottesco che ho proposto poi nel cinema: distorcere la realtà è il mio modo di raccontarla. Ho fatto prima teatro drammatico, sono stata aiuto regista di Guido Salvini e Giorgio De Lullo. L’estate andavo a lavorare con Garinei e Giovannini, scrivendo commedie musicali... Poi però è arrivato Fellini».
Quanto è stato importante quell’incontro?
«Fondamentale. Il periodo vissuto al suo fianco è stato tra i più belli della mia vita. Potrei parlarne per otto ore di fila».
Era amica di Giulietta Masina?
«Giulietta per me è sempre stata la moglie di Fellini. Federico era il grande amico, il mago, il compagno di giochi. Ero sempre al suo fianco e risolvevo problemi. E lui lo sapeva: una volta fece un annuncio in cui cercava una giovane donna. Si presentarono in cinquemila, lui si diede alla fuga e mi lasciò a gestire il traffico di quella folla di signore pronta ad assalirlo con affetto».
Poi il debutto in "I basilischi".
«Con budget basso, ma per fortuna con l’aiuto della troupe di 8 ½ e un incredibile entusiasmo. Andando sul set di Salvatore Giuliano di Rosi, in Sicilia, decidemmo con amici di fare un giro per le cattedrali della Puglia, finimmo al confine con la Basilicata in un paesino che si chiama Palazzo San Gervaso, era quello da cui era venuto mio padre a Roma per fare l’avvocato. Non c’ero mai stata. Incontrai zii e parenti ed ebbi l’ispirazione per fare un ritratto del Sud profondo: la borghesia, lo struscio, il rapporto padri figli, ragazzi e ragazze...».
Altro incontro fondamentale quello con Giancarlo Giannini.
«Ai tempi di Mimì Metallurgico il produttore era in dubbio su di lui ma io non mollai. Ricordo anche che il direttore della fotografia quando vide per la prima volta Mariangela Melato era dubbioso: il viso non prende bene la luce… alla fine delle riprese era innamorato. Con Mariangela siamo state amiche per quarant’anni».
"Travolti da un insolito destino..." è diventato un culto.
«È rimasto nel tempo. E non solo negli Stati Uniti. Ricordo un tassista di Tokyo che ricordava a memoria le battute. No, il remake con Madonna non l’ho visto. Ho intuito che mi avrebbe deluso…».
Quante volte l’hanno presentata come "la prima regista candidata all’Oscar", con "Pasqualino settebellezze"?
«Almeno duemila, ma ogni volta ero contenta».
Da Hollywood le sono arrivate offerte che non ha accettato?
«No, perché mi piace l’Italia, mi piace Roma, mi piace stare qui».
Le cose più importanti di questi novant’anni?
«L’incontro con Enrico Job, mio marito. Il grande dono che mi ha fatto la vita. Lui e mia figlia sono le cose più care. Quelle professionali non me le ricordo neanche più …».