il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2018
Alitalia, a che punto siamo con i conti
Che fare di Alitalia? La vecchia domanda, presa in prestito da Lenin, si ripropone per il vettore italiano il cui dossier resta uno dei più caldi sui tavoli ministeriali anche dopo l’arrivo del nuovo governo. La strategia adottata sotto il governo Gentiloni di vendere al più presto Alitalia nelle condizioni in cui si trovava al momento del commissariamento, senza neppure guardare ai conti e alle cause del dissesto, è completamente fallita. Sulla scaletta di Alitalia non vi era alcun compratore pronto con l’assegno in mano. Nulla di strano: vendere Alitalia poteva essere paragonato al tentativo di vendere la casa della vecchia zia nonostante fosse completamente allagata, con probabili fughe di gas e la fama di essere infestata dai fantasmi. In casi di questo tipo si chiamano prima tecnici e i ghostbusters per sistemare, certo non gli agenti immobiliari.
Nessunodi coloro che si sono affacciati alla procedura di gara dei commissari era disposto ad acquisire l’intera azienda perché evidentemente nessuno si riteneva in grado di metterla a posto. I pochi seriamente interessati hanno invece presentato manifestazioni d’interesse per singole parti, una soluzione che se accettata avrebbe obbligato il governo, quello di allora come quello di oggi, a ‘nazionalizzare’ i numerosi esuberi, generando un costo sociale elevato e un consistente esborso pubblico per la protezione sociale.
I grandi vettori europei tradizionali non sono in grado di risanare Alitalia perché sui loro mercati godono di proventi unitari (yield) molto più elevati per il fatto che le compagnie low cost vi detengono quote di mercato minori di quelle raggiunte in Italia (è il caso di Germania e Francia) oppure operano principalmente in segmenti, come il lungo raggio di British Airways, dei quali i low cost non si sono impadroniti. Grazie a proventi unitari maggiori possono permettersi costi unitari nello stesso tempo minori dei loro ricavi, ma maggiori dei costi unitari di Alitalia, che non ritengono evidentemente di essere in grado di abbassare ulteriormente. Coi loro yield, Alitalia sarebbe profittevole e priva di problemi mentre con gli yield di Alitalia, sarebbero tutti in perdita. Nel 2017 i vettori network del gruppo Lufthansa hanno incassato in media 10,7 centesimi di euro per passeggero a km mentre nello stesso anno per Alitalia ne sono stati, in base ai dati dei commissari, soli 6,9. Un dato poco attrattivo per qualsiasi altro vettore di tipo tradizionale.
Poiché Alitalia non è vendibile nelle condizioni attuali, non restano che due strade. La prima è la sua chiusura. Questa è la soluzione auspicata da molti italiani, stanchi dell’eterna questione Alitalia, senza che siano consapevoli dell’onerosità dell’operazione.
Nel 2008 per ridimensionare il vettore e ridurre di un terzo i suoi dipendenti, il governo dell’epoca accollò alle casse pubbliche quattro miliardi di oneri (che divengono 6-7 se si includono le minori entrate fiscali conseguenti al ridimensionamento). Tale cifra avrebbe potuto essere impiegata più efficacemente per rilanciare l’azienda, comprandole ad esempio la flotta a lungo raggio che le è sempre mancata. Oggi come allora il rilancio pubblico, la seconda strada a disposizione, è con certezza meno oneroso per le casse pubbliche. Ma la linea di confine tra un rilancio pubblico efficace, che non è mai avvenuto se non all’inizio della storia dell’azienda, e l’ennesimo flop è molto sottile. In tale ipotesi nefasta sommeremmo i costi dell’insuccesso del rilancio ai costi dell’inevitabile chiusura dell’azienda, il peggior esito possibile.
Quali sono allora le condizioni necessarie, ma non necessariamente sufficienti, per un rilancio pubblico? E chi realizza il rilancio? In questi giorni è circolata l’ipotesi di diverse aziende pubbliche, non è chiaro se in alternativa oppure congiuntamente. Questa sarebbe tuttavia la prima scelta sbagliata: non si può affidare un’operazione non di mercato, come è almeno sino al pareggio industriale il salvataggio di Alitalia, ad aziende di mercato, ancorché pubbliche. In questa fase l’unica possibilità coerente e giustificabile è un intervento diretto ed esclusivo del Tesoro. Questo intervento può essere transitorio: una volta conseguito l’equilibrio economico l’azienda può sia restare pubblica in maniera permanente, per la gioia degli statalisti, oppure anche essere, questa volta con successo, integralmente venduta, per la gioia dei liberisti. Ma solo il Tesoro in via diretta può farsi carico della ristrutturazione, non le Poste, le cui sinergie sono già state sperimentate in occasione della precedente partecipazione integralmente andata in fumo, né le Ferrovie, per le quali esiste un serio problema antitrust se si considera che più di tre viaggiatori su cinque di Alitalia prendono l’aereo su voli domestici evitando il treno. E neppure la Cassa Depositi e Prestiti, che non può per statuto, correttamente, acquisire partecipazioni in aziende in perdita. Bisognerà inoltre convincere l’Unione Europea della bontà del piano di rilancio affinché autorizzi l’ennesimo ma ultimo aiuto di Stato.
È evidente che il turnaround di Alitalia richiede investimenti e che questi sono potenzialmente elevati, tuttavia può essere sufficiente che l’attore pubblico avvii la svolta di Alitalia, inizialmente senza poter modificare molto la flotta né contando su yield meno svantaggiosi ma rivedendo rotte, uso dei velivoli, politiche di prezzo e contratti tuttora svantaggiosi coi fornitori. Dimostrando che Alitalia può tornare in equilibrio potrà infatti attrarre, in un secondo momento, partner di mercato in grado di mettere a disposizione i cospicui capitali indispensabili per completarne il rilancio.