Il Messaggero, 11 agosto 2018
L’impresa di Patton, il generale d’acciaio
Questo articolo è scritto sotto l’arcata di un ponte e vuole rievocare l’impresa di un grande generale. Il ponte è a Pontaubault, sulla Sélune, un fiume che divide la Normandia dalla Bretagna. Il generale è George Smith Patton, che vi fece transitare in poche ore un’intera armata, per la liberazione della Francia e dell’Europa nell’Agosto del 1944. Un’impresa paragonabile a quelle di Annibale e di Napoleone, quando attraversarono le Alpi.
Gli angloamericani erano sbarcati in Normandia il 6 Giugno, e vi erano rimasti inchiodati. Quella regione è un reticolo di campi – il famoso bocage- limitati da alti terrapieni, dove ogni fossato è una trincea e ogni siepe un fortino: intere divisioni corazzate erano state bloccate dall’abile difesa della fanteria tedesca. Le perdite alleate erano enormi. Chi visita il cimitero di Colleville, che domina la spiaggia di Omaha, e dove inizia la commovente sequenza del film sul soldato Ryan, crede che vi siano sepolte le vittime dello sbarco. Non è così. La stragrande maggioranza delle tombe tiene i resti dei soldati morti nella battaglia del bocage. Un macello che non poteva continuare.
Alla fine di luglio, gli americani giocarono il tutto per tutto: mandarono migliaia di bombardieri per radere a tappeto una zona a Ovest di Saint Lo, e creare una breccia. Fu un azzardo, perché i B-17 volavano troppo alti, e tra le nubi: infatti le bombe caddero a casaccio uccidendo centinaia di americani compreso un generale a tre stelle.
L’UNICA VIA
Alla fine il fronte parve cedere, ma il bocage restava. C’era un’unica via per uscire dalla Normandia verso le vaste pianure della Loira: era il ponte sulla Sélune. Lì Patton, con la sua nuova Terza Armata, arrivò di corsa il 31 Luglio: si mise a dirigere personalmente il traffico, agitando come un cowboy la pistola con l’impugnatura di madreperla. Spronò i suoi ufficiali, incoraggiò i suoi soldati, distribuì elogi e reprimende: alla fine duecentomila uomini, con migliaia di carri e di altri veicoli sarebbero dilagati in una inarrestabile e incredibile corsa. In meno di un mese Patton attraversò la Francia e arrivò ai confini con la Germania, superando in velocità e in ardimento la leggendaria galoppata di Guderian che nel 1940 aveva tagliato in due il fronte anglo francese. Alla fine, l’impetuoso generale dovette fermarsi: «I miei uomini disse – possono mangiarsi la cintura dei pantaloni, ma i miei carri non possono marciare senza benzina». E la benzina non c’era: le linee di rifornimento si erano troppo allungate e Patton, imprecando, si dovette fermare.
LA STRATEGIA
Il mondo rimase allibito da quella impresa. Qualcuno tuttavia fece notare che Patton aveva attraversato un fronte già compromesso, e davanti a lui non aveva più trovato nessuno. In parte era vero: ma il genio di uno stratega consiste nello sfruttare una situazione favorevole. Patton non si fermò come consigliavano la prudenza e i manuali militari: rischiò, e vinse. Ma le critiche continuarono. Qualcuno rievocò l’incidente in Sicilia, quando il generale aveva schiaffeggiato un soldato ricoverato per una crisi di nervi. Montgomery, che lo detestava, lo accusava di rallentare la conclusione del conflitto, che lui, Montgomery, sarebbe riuscito a concludere in pochi mesi. In effetti il feldmaresciallo britannico ci provò due settimane dopo in Olanda, con l’operazione Market Garden, e fu un disastro. I tedeschi erano ancora battaglieri.
LA RIVINCITA
Patton si prese la rivincita tre mesi più tardi. Il 16 Dicembre 1944 i nazisti, sorprendendo tutti, sfondarono tra le Ardenne, puntarono su Anversa e circondarono Bastogne. Eisenhower chiese a Patton, che stava molto più a sud, in quanto tempo avrebbe potuto organizzare un alleggerimento. «Entro quarantott’ore – rispose lui – posso muovere un contrattacco con un corpo d’armata». Il comandante supremo pensò all’ennesima fanfaronnade. Invece era vero. Patton aveva agito su due fronti: per avere il bel tempo, e quindi la copertura aerea, aveva fatto distribuire una preghiera, e per muoversi tempestivamente aveva predisposto delle opzioni preventive. I due piani funzionarono: arrivò il sole, e il roccioso generale, che condiva i suoi ordini con orrende bestemmie, decorò il cappellano che aveva scritto l’invocazione. Poi fece ruotare di novanta gradi tre divisioni, le spedì a nord e il 26 Dicembre i suoi carri liberarono Bastogne. Questa volta anche i militari più diffidenti rimasero impietriti dall’ammirazione. Un simile miracolo di tattica e di logistica non si era mai visto. Il resto venne da sé. Fallito il suo ultimo colpo di coda, il destino di Hitler era segnato. E paradossalmente, senza saperlo, il generale Patton aveva contribuito a salvare la Germania dalla rovina totale. Se gli americani fossero stati fermati sulle Ardenne, la prima bomba atomica, di lì a poco, sarebbe stata sganciata su Berlino.
I VINCITORI
Patton non fu il vincitore della battaglia di Francia e tantomeno di quella per l’Europa: un’impresa così complessa non può identificarsi in un uomo solo. Dietro questo focoso guerriero stavano la geniale programmazione logistica di George Marshall, la sapiente strategia di Dwight Eisenhower, una colossale industria bellica e soprattutto il valore del soldato americano. Ma se non fu il vincitore del conflitto, Patton fu l’espressione dell’ardimento, dell’audacia e della fantasia dell’ultimo dei grandi condottieri. Identificò sé stesso con la guerra, la guerra con la vittoria, e la vittoria con la Giustizia. Se per Eisenhower la distruzione del nazismo era una crociata, per Patton era un giudizio biblico contro il Male, identificato in ogni forma di dittatura. Disgustato da Stalin quanto da Hitler, Patton predicava di non fermarsi a Berlino, ma di arrivare fino a Mosca, sloggiando da San Basilio i comunisti atei per segnarsi devotamente davanti alle icone ortodosse. Mai avrebbe immaginato che, settant’anni dopo, quel gesto sarebbe stato platealmente eseguito da Vladimir Putin: la Storia va dove vuole Lei, e non dove crediamo noi.
L’EPILOGO
George Patton sperava di morire da soldato, «con l’ultimo proiettile dell’ultima battaglia dell’ ultima guerra». Invece fu vittima di un incidente stradale, e morì proprio un anno dopo il suo trionfo di Bastogne. Volle esser sepolto tra i suoi ragazzi: nel cimitero di Hamm, in Lussemburgo, una semplice croce con il suo nome domina una bianca distesa di tombe. Nella prefazione alle sue memorie, scrisse orgogliosamente cosa si aspettava dopo: «Porto con me le mie cicatrici, perché dimostrino a Colui che dovrà ricompensarmi che ho combattuto le Sue battaglie». Ciò detto spirò, e tutte le trombe suonarono per lui dall’altra parte.