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 2018  agosto 11 Sabato calendario

Ma la Turchia non è il Venezuela

«Ci aspettavamo un ulteriore indebolimento della lira turca, ma non con questa rapidità». Beppe Fumagalli, amministratore delegato di Candy Group, non nasconde qualche preoccupazione per la situazione generatasi in Turchia. Il gruppo di elettrodomestici, che ha inaugurato a fine maggio il suo terzo sito produttivo a Eski?ehir, è presente nel Paese da oltre dieci anni, conta 1.200 dipendenti e produce 2 milioni di pezzi l’anno. «Siamo netti esportatori dalla Turchia, quindi questa svalutazione ci avvantaggia. Ma certo preoccupa la tenuta del sistema nel suo insieme».
Il settore degli elettrodomestici è solo uno dei tanti in cui le aziende italiane sono protagoniste in Turchia: 1.410 sono le società del nostro Paese con una presenza produttiva o commerciale, secondo i dati del ministero turco dell’Economia, anche se l’agenzia del governo italiano Ice stima in 700 circa le imprese con una effettiva struttura industriale o con uffici, spesso in joint venture con partner locali. Dalle grandi aziende (come Ferrero, Barilla, Trevi o Astaldi), alle realtà medie e piccole attive soprattutto nella meccanica, nell’automotive, nella farmaceutica, nel tessile, nelle costruzioni e nei servizi finanziari. «In particolare, negli ultimi dieci anni ci sono stati importanti investimenti in infrastrutture», precisa Aniello Musella, responsabile dell’ufficio Ice a Istanbul.
Gli investimenti italiani in Turchia (l’1,2% degli investimenti esteri complessivi) hanno raggiunto l’anno scorso i 124 milioni di dollari, con un aumento del 42,5% rispetto al 2016 (dati Ice). Investimenti che potrebbero essere messi in discussione nei prossimi mesi, ma Musella rassicura: «Siamo tutti in attesa di capire che cosa accadrà, ma la Turchia non è l’Argentina, o il Venezuela: nonostante la forte svalutazione e l’inflazione, il sistema economico è solido ed è un Paese ideale per fare business, con una grande capacità produttiva e organizzativa e una manodopera preparata e competente».
Anche per chi esporta è un mercato rilevante, con un Pil cresciuto del 7,4% lo scorso anno e una popolazione con età media di 31 anni. La svalutazione potrebbe però colpire i consumi interni e dunque le esportazioni italiane che, nel 2017, hanno raggiunto gli 11,3 miliardi di dollari: tra i settori più interessati, quelli di macchinari e componenti, autoveicoli, materie plastiche e macchinari di precisione. «La situazione è preoccupante ma non allarmante – osserva tuttavia Andrea Maschio, socio della Maschio Gaspardo, che produce attrezzature agricole ed è in Turchia dal 2003 con una filiale commerciale e un giro d’affari di 10 milioni (su 324 milioni di fatturato nel del 2017) –. Chi come noi ha fatto un investimento nel Paese, ora forse avrà delle difficoltà, ma bisogna restare, perché sono certo che, quando la Turchia ripartirà, chi è presente fisicamente sarà avvantaggiato».
E c’è anche chi si vede favorito dalla situazione attuale: «Siamo qui da diversi anni e ora, con l’acquisizione dell’azienda Okida, abbiamo quasi 200 dipendenti spiega Pietro Iotti, ad di Sabaf, azienda di componenti per cucine e apparecchi per la cottura a gas –. Per noi la svalutazione è positiva, perché circa il 60% dei nostri costi è in lire turche, mentre tutti listini sono legati al dollaro o all’euro, perché esportiamo quello che produciamo qui oppure vendiamo alle imprese di elettrodomestici e con loro i contratti sono tutti in valuta forte».