Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2018
L’oro alla patria di Erdogan aggrava la crisi della lira turca
Oro alla patria. La ricetta del presidente Recep Tayyip Erdogan per salvare la lira turca potrebbe ricordare la campagna lanciata dal regime fascista in Italia nel 1935. Di fronte al tracollo della moneta, che a un certo punto ieri è arrivata a cedere il 20% contro il dollaro, Erdogan ha invitato i suoi connazionali a vendere oro per sostenere il cambio e di affiancarlo nella «battaglia nazionale» contro i nemici che cospirano contro la Turchia: «Lo ripeto ancora, se qualcuno ha dollari oppure oro sotto il cuscino, dovrebbe andare in banca a cambiarli in lire. Questa sarà la risposta del mio popolo a chi ha dichiarato guerra economica contro di noi».
L’appello al nazionalismo ha scoraggiato ancora di più gli investitori (che ormai quasi invocano un intervento drastico della Banca centrale) e ha innescato una nuova flessione della lira, già penalizzata dalle preoccupazioni espresse dalla Bce sull’esposizione di Bbva, Unicredit e Bnp Paribas nei confronti del mercato turco. Il tentativo di rimbalzo è stato poi quasi obliterato dalle parole del presidente Usa, Donald Trump, che dal balcone di Twitter ha annunciato il raddoppio dei dazi sull’import di acciaio e alluminio dalla Turchia: «Ho appena autorizzato – ha digitato Trump – il raddoppio delle tariffe, dato che la lira turca sta crollando nei confronti del nostro very strong Dollar!».
Al di là dell’incongruenza che permette di vantarsi della forza della propria moneta e contemporaneamente di “punire” la debolezza delle altre, la mossa getta altra benzina sul fuoco della crisi tra Stati Uniti e Turchia: le tensioni su vari fronti (Siria, rapporti con Mosca, ruolo di Ankara nella Nato) hanno trovato il culmine nella vicenda del pastore statunitense Andrew Brunson, da due anni detenuto prima nelle carceri turche, poi agli arresti domiciliari, con l’accusa di terrorismo e spionaggio. Nel pomeriggio, Erdogan ha ricevuto una telefonata da parte del presidente russo Vladimir Putin. Gli extra-dazi Usa sull’alluminio turco salgono ora al 20%, quelli sull’acciaio al 50%. L’anno scorso, gli Usa sono stati il primo mercato di sbocco per la siderurgia turca: l’export di acciaio, sempre nel 2017, rappresentava il 7% dell’export complessivo del Paese, che è il sesto produttore mondiale.
In serata, il ministro del Commercio turco, Ruhsar Pekcan, ha usato toni molto diversi da quelli di Erdogan: «Imploriamo il presidente Trump a tornare al tavolo dei negoziati per risolvere la questione attraverso dialogo e cooperazione».
A quel punto, le parole di Trump avevano già affossato la lira a un soffio da quota 7 contro il dollaro (nel minimo di giornata), un record negativo che ha portato oltre il 40% il crollo da gennaio. Trascinate al ribasso le monete di altri Paesi emergenti, l’euro e i listini azionari globali. Con una svalutazione così profonda, diventa sempre più difficile rispettare gli impegni con i creditori per le tante imprese turche che hanno emesso debito in dollari. Intanto l’inflazione è schizzata dal 10% di gennaio al 16% di luglio e i rendimenti a 10 anni hanno sfondato il 20%.
Le dichiarazioni di Erdogan e Trump hanno eclissato l’atteso, ma deludente, intervento con il quale il ministro delle Finanze turco Berat Albayrak (genero del presidente), ha esposto il programma economico del Governo. Un discorso durato un’ora, pronunciato a Istanbul, davanti a una platea di imprenditori, che non ha portato alcun sollievo alla moneta.
Albayrak ha promesso che la Banca centrale resterà indipendente, ma ci vorrà ben altro per restituire credibilità all’istituto, dopo che Erdogan si è autodefinito «nemico dei tassi di interesse» e dopo la passività con la quale ha subito il crollo della lira e l’impennata dell’inflazione. Il ministro ha promesso anche maggiore disciplina di bilancio, riforme strutturali, ribilanciamento dell’economia e «crescita sana e sostenibile». Non ha però spiegato come il Governo raggiungerà tutti questi risultati.