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 2018  agosto 11 Sabato calendario

In morte di Cesare De Michelis

Giuliano Ferrara per Il Foglio
Gran dottore, bibliofilo, editore, veneziano e di ceppo protestante valdese come il fratello Gianni, socialista, disilluso, amabile amico, Cesare De Michelis era un tipo speciale di italiano, direi laterale. Chi si occupa di cultura, abbraccia la vita pubblica o l’accademia, esercita di norma il suo talento mettendosi al centro della scena, spesso con effetti fantasmagorici e qualche volta grotteschi. Cesare De Michelis non è mai stato uno spettatore anonimo né un suggeritore piazzato nella sua buca o dietro le quinte, ma evitava riflettori troppo accesi, lasciava all’incandescente fratello Gianni, con il quale condivideva una prepotente intelligenza, l’effimera eppur vera gloria della lotta politica aperta e intensamente militante, e da intellettuale di grande pregio e amministratore e imprenditore, ferocemente legato alla Laguna, evitava sistematicamente di travalicare il confine del lavoro ben fatto, di quel gioiello della casa Marsilio da cesellare per sessant’anni con amore e grinta. 

Era un conversatore fervente, capace di ira e di pacificazione, e un compagno ideale di convivialità e di lavoro, ma non amava la chiacchiera gesticolante. Aveva il dono misterioso e raro, almeno in un paese di passioni cattoliche e mediterranee come questo, del ritegno. All’atto della fondazione del Foglio, a giornale mezzo ideato e non ancora uscito, oltre vent’anni fa, ci disse della sua curiosità per ogni inizio, e il nostro in particolare, e fu prodigo di consigli, incline a una qualche forma di partecipazione. Era un momento complicato, per lui alla testa di un’impresa di nicchia, allora, ambiziosa e destinata a lanciare un’intera letteratura, un pezzo d’Europa, il thriller scandinavo, e scrittori, scrittrici, di gusto e risonanza eccellenti, e per noi che eravamo bastardi solitari in una mischia di politica e ideologia che poteva durare tre mesi e fra poco farà il suo quarto di secolo. Non se ne fece alcunché, eppure Cesare si considerò e fu sempre un compagno di viaggio, un discreto suggeritore di cose belle, non di bellurie.

Era a suo modo una pietra di Venezia, altro che bellurie. Non mollava il suo mondo, che è notoriamente una imago mundi dalla luce soffusa e riflettente, per nessuna ragione. Un anno fa era stanco, dopo una cena all’Harry’s Bar, ma vivissimo e ostinato si aggirava per le calli con la sua compagna Manuela e senza darsi arie libertine, casanoviane, si mostrava in tutta la sua tempra elegante di gentiluomo veneziano. Lo amava, e non era rimasto prigioniero del riformismo socialista. Nella sua compostezza pareva un navigatore, un gran mercante di idee, un signore degli scambi. Questa è poi la sua eredità, oltre allo stile e ai libri, e al suo figlio delfino di una storia familiare che forse comincia con il progenitore dei progenitori, il tipografo Aldo Manuzio, al quale Cesare De Michelis aveva dedicato saggi e interpretazioni piene di giudizio e di preziosi dettagli. Con quelli come lui Venezia è sempre salva, e salda, e l’Italia con lui era un paese in tutto migliore.

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Cristina Taglietti per il Corriere della Sera
Marsilio era lui. Cesare De Michelis, morto ieri notte a Cortina d’Ampezzo, alla casa editrice fondata nel 1961 da un piccolo gruppo di giovani laureati (tra cui Toni Negri) e intitolata al pensatore e giurista ghibellino Marsilio da Padova, aveva cominciato a collaborare mentre ancora era all’università. Nato a Dolo, sulla Riviera del Brenta da una famiglia di origine protestante, De Michelis avrebbe compiuto 75 anni il 19 agosto. Da tempo conviveva con la malattia, ma la sua scomparsa è stata improvvisa, nel sonno, mentre era in vacanza con la moglie Emanuela Bassetti.
Alla casa editrice di cui era presidente e allo studio Cesare De Michelis ha dedicato gran parte della sua vita fin da quando, nel 1965, il padre gli regalò per la laurea, al posto della Cinquecento, alcune azioni della Marsilio e con il fratello di tre anni maggiore, Gianni (che poi sarebbe diventato il politico di punta del Partito socialista e più volte ministro), entrò nella proprietà. Quattro anni più tardi, mentre gli altri fondatori per ragioni diverse si defilano, ne assume la direzione e diventa prima amministratore delegato, poi presidente.
È guidata dalla sua curiosità e dal suo intuito che la casa editrice, che fino ad allora si proponeva di incidere sulla società pubblicando testi di architettura, cinema e scienze sociali, amplia i suoi confini aprendosi alla narrativa, ai libri illustrati, ai cataloghi d’arte, alle guide, alle pubblicazioni in collaborazione con prestigiose istituzioni venete (ma non solo), come la Collezione Guggenheim, la Fondazione Pinault o la Cini.
Grande bibliofilo — nella sua casa veneziana le pareti sono quasi completamente ricoperte da una biblioteca di oltre 70 mila volumi che abbraccia tre secoli di letteratura italiana, dal Settecento al Novecento — De Michelis è stato un intellettuale a tutto tondo. Docente universitario (ha insegnato per oltre quarant’anni Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Padova), era un uomo di raffinata cultura e di straordinario fiuto editoriale, un talent scout capace di far convivere il gusto popolare con le sue passioni più ricercate, come quella per Aldo Manuzio.
Inizialmente la casa editrice, che nel 1973 si trasferisce da Padova a Venezia, pubblica i saggi di Gilles Martinet e di Georges Lefebvre, inchieste come Sesso in confessionale che nel 1971 porta alla casa editrice la scomunica del Vaticano ma anche 170 mila copie vendute e 27 traduzioni straniere. Ma è sopratutto nell’attenzione alla contemporaneità, nella ricerca degli esordienti, in anni in cui è pressoché l’unico a farla, che De Michelis si spende di più portando nella casa sulla laguna scrittori come Nico Orengo, Aldo Rosselli, Antonio Debenedetti, Carla Cerati, Franco Scaglia, Gaetano Cappelli. È lui a scoprire Susanna Tamaro, reduce da 26 rifiuti editoriali, e a pubblicare il suo esordio, La testa tra le nuvole (ma sarà poi Alessandro Dalai di Baldini & Castoldi a pubblicare il bestseller Va’ dove ti porta il cuore). È ancora lui a scoprire Margaret Mazzantini di cui propone Il catino di zinco, prima che la scrittrice passi, non senza frizioni, a Mondadori. Scopre anche Chiara Gamberale. Ed è lui a rilanciare il dimenticato Sergio Maldini che nel 1992 vincerà il premio Campiello con La casa a Nord-Est, ma anche, negli anni Novanta, una collana di poesia proposta da Giovanni Raboni.
De Michelis viveva il lavoro e i rapporti con passione e alcuni abbandoni non furono privi di asperità ma alla fine, da grande navigatore del mondo, riconduceva tutto alle normali dinamiche della vita. «Finiscono i matrimoni, figuriamoci i rapporti editoriali», diceva prima di ricordare, con ironia, che c’erano stati anche editori che gli avevano strappato qualche autore, per poi pentirsene.
Benché si fosse dedicato a lungo soprattutto alla narrativa italiana, la casa editrice saprà, negli anni, cogliere grandi fenomeni, come il cosiddetto giallo nordico, iniziato con la pubblicazione di Henning Mankell e sfociato nel 2009 nella Millennium Trilogy dello svedese Stieg Larsson, saga che ha venduto oltre 5 milioni di copie, proseguita nel 2015 da David Lagercrantz. La saga di Millennium aprirà la strada ad altri bestselleristi scandinavi che nell’editore della laguna troveranno la loro casa italiana, come Camilla Läckberg, Liza Marklund, Åsa Larsson.
La personalità di De Michelis ha sempre pervaso l’editrice, anche quando, nel 2000, Marsilio entra a far parte di Rcs Libri. È nel nome di quella indipendenza rivendicata con orgoglio che, quando nel 2016 il gruppo viene acquisito da Mondadori e l’Antitrust impone lo scorporo di Bompiani e di Marsilio, De Michelis, con il figlio Luca (oggi amministratore delegato), si riprende la casa editrice. Una scelta necessaria la definirà, pur ammettendo di non essere affatto un fautore del «piccolo è bello». Per questo nel 2017 Marsilio si apparenta con Feltrinelli, a cui cede il 40% delle quote destinate a diventare il 55% entro il prossimo anno.
In oltre mezzo secolo Marsilio, che nel 2010 ha inglobato anche Sonzogno e oggi ha una struttura editoriale di oltre 30 dipendenti, ha pubblicato più di 6.500 titoli, di cui 3 mila ancora in catalogo.
De Michelis non è stato però soltanto l’editore di Marsilio, ma fin dagli anni Sessanta ha intessuto un legame molto forte con le istituzioni politiche e culturali venete. Con Massimo Cacciari nel 1965 ha fondato e diretto la rivista «Angelus Novus». Impegnato in politica nelle file del Psi, dal 1980 al 1985 è stato consigliere comunale e assessore al Comune di Venezia dove è stato anche vicepresidente della Biennale. Nel 2006 ha fondato presso il dipartimento di italianistica dell’Università di Padova l’Archivio degli scrittori veneti del Novecento, dove sono raccolte le carte donate dagli eredi di autori come Sergio Maldini, Paolo Barbaro, Giuseppe Berto. Alla riscoperta della modernità di quest’ultimo, autore de Il male oscuro, De Michelis ha dedicato passione ed energia costituendo, nel 2014, il Comitato per il centenario della nascita e promuovendo iniziative e giornate di studio.
Nominato nel 2017 Cavaliere del Lavoro dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Cesare De Michelis è stato anche consigliere della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia e presidente del comitato scientifico per l’edizione nazionale delle opere di Carlo Goldoni oltre che autore di centinaia di saggi e articoli. Al mestiere di editore ha dedicato una serie di libri come Tra le carte di un editore, che ripercorre le vicende della Marsilio, ed Editori vicini e lontani. Con Stefano Lorenzetto aveva appena finito di lavorare a un libro di memorie intitolato In cerca d’autore, che uscirà in autunno.

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Camillo Langone per il Giornale
Mi piaceva considerarlo un uomo fortunato, non certo per sminuirne gli evidentissimi meriti personali ma perché nell’ambiente intellettuale guai e lamenti sovrabbondano e conoscere un letterato-editore capace di dichiarare una biografia felice mi allargava il cuore.
Già nascere a Dolo suona di buon auspicio: paese ameno della riviera del Brenta, pullulante di ville patrizie, a metà strada fra le due straordinarie città in cui si svolse gran parte della non ordinaria vita di Cesare De Michelis, ossia Padova, dove fu professore universitario di letteratura italiana fino al 2013, e Venezia, dove fu editore (anche dei miei libri) fino a ieri. In verità i genitori abitavano in laguna, la madre decise di partorire fuorisede nell’ospedale dello zio primario ma non importa, Dolo resta un ottimo inizio. Dunque bisogna parlare del clan De Michelis, ricco di fosforo e stimoli e libri da molte generazioni. Il nonno Cesare era un pastore evangelico, lo zio Eurialo un narratore che pubblicava per Bompiani e Neri Pozza, la madre Noemi, rara avis, una dirigente d’azienda.
Cesare e i suoi quattro fratelli approdarono agli studi universitari forse nel momento migliore della storia dell’istituzione, ovvero poco prima dell’università di massa: tutti e cinque si laurearono brillantemente e tutti e cinque salirono in cattedra subito dopo, a cominciare dal primogenito Gianni, futuro vicepresidente del Consiglio e soprattutto figura epocale degli anni Ottanta. Nell’Italia degli insegnanti precari a vita non ci si riesce a credere. «Iniziammo la carriera universitaria nella convinzione che non c’era lavoro al mondo che garantisse meglio l’indipendenza». Che tempi! E quanta libertà! L’anomalia della cattedra-lampo è preceduta dall’anomalia della tesi: una volta il capo della Marsilio mi raccontò compiaciuto di essersi laureato con una tesi completamente priva di note, privilegio allora riservato ai talenti indiscutibili e oggi, in una università rimbecillita dalla burocrazia, impensabile per chiunque.
Oltre che in famiglia, De Michelis fu fortunato anche a scuola: appena ventunenne fondò la rivista Angelus novus con un ex compagno di classe, un certo Massimo Cacciari. Appena ventiseienne, nel 1969, assunse la direzione della Marsilio, casa editrice fondata a Padova da un gruppo di personaggi fra i quali Toni Negri, ehm, per darle la sua impronta e spostarla di 40 chilometri. L’uomo fortunato portò fortuna a Venezia, città dove sono nati gli editori, i tascabili, il carattere corsivo, ma che senza di lui sarebbe oggi un nulla editoriale: «Quando cominciai lo sapevo e non lo sapevo che la Serenissima era stata la patria del libro. Quando vi trasferii la Marsilio da Padova, la casa editrice era pressoché sola e tale in sostanza è rimasta durante questi anni, nel segno di una tradizione che, mi illudo, non ho lasciato si spegnesse del tutto».
Umanista e imprenditore, grande veneto, uomo simpatico, editore libero da pregiudizi ideologici: che fortuna averlo incontrato! Non credevo ai miei occhi quando nel 2013 venne a presentare il mio Eccellenti pittori a Follina, provincia di Treviso, nello spazio di Giovanni Gregoletto. Era già acciaccato e il libro non appariva certo cruciale per le sorti della casa editrice eppure venne, credo per amicizia, stima, reale interesse verso il contenuto delle pagine. Ha portato fortuna a molti altri autori non precisamente da classifica che in Marsilio sono stati pubblicati a prescindere dalle prospettive di vendita: grazie al suo fiuto e al suo sincero amore per la narrazione scovava bestseller (Susanna Tamaro, Margaret Mazzantini, Stieg Larsson...) che indirettamente andavano a finanziare libri più difficili. Mi vengono in mente un paio di titoli di Geminello Alvi, uno dei massimi e massimamente misconosciuti prosatori della nostra lingua, pubblicati per ragioni del tutto extra-commerciali. Ragioni nobilissime: De Michelis, lo si legge nel suo Tra le carte di un editore, teorizzava la necessità di garantire uno spazio ad autori «che abbiano altri interessi e visioni, vale a dire un’idea umanistica della cultura e della vita».
Nell’ultima lezione tenuta all’università di Padova, intitolata «Ascesa e caduta della grande letteratura italiana», si mostrò ben consapevole dello stato pre-comatoso delle patrie lettere eppure non esortò alla resa. Le ultime frasi già allora mi colpirono, e a rileggerle ora mi si accappona la pelle: «Siamo di fronte a una svolta, a un’autentica metamorfosi, a una vera e propria soluzione di continuità che investe non solo la letteratura e impone risposte all’altezza, spregiudicatamente restaurative, nel senso, cioè, di un rinnovamento della tradizione, di un imprevedibile nuovo rinascimento che impegnerà a lungo tutte le nostre, le vostre, risorse. Coraggio, percorrere questa strada ora tocca a voi».



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Mario Baudino per La StampaMeglio vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono», ha scritto quasi a congedo nel suo recente pamphlet Editori vicini e lontani, uscito nel 2016 per le eleganti Italo Svevo edizioni. Ed è un’ottima definizione che rivendica per se stesso, editore «d’istinto», di fiuto, all’occorrenza anche di libertinaggio intellettuale. Cesare De Michelis era un uomo spiritoso e disincantato, coltissimo, che amava la letteratura e l’editoria come fossero – quasi – una cosa sola. Ha fatto della Marsilio, casa editrice nata dal sogno di un gruppo di neo-laureati veneti, un editore che sa stare sul mercato senza rinunciare alla propria anima – un editore di progetto che ha resistito benissimo alle sfide delle grandi concentrazioni e dei super-gruppi.
È morto ieri a Cortina d’Ampezzo, dov’era in vacanza. Avrebbe compiuto 75 anni il prossimo 19 agosto. Nato a Dolo, sulla Riviera del Brenta da una famiglia valdese, fratello di Gianni, il politico e ministro socialista, cinefilo, appassionato della figura del grande tipografo umanista Aldo Manuzio, era prima di tutto uno smisurato e avidissimo lettore, fino a 1000 volumi l’anno. Aveva anche, va da sé, una biblioteca sterminata, di oltre centomila volumi. E l’idea che nei libri, pur nella loro apparente marginalità economica «si specchia il mondo che c’è e bisogna essere contenti che così sia, perché questa è la premessa di tutte le libertà».La Marsilio nacque a Venezia nel 1961 da un gruppo d’amici che comprendeva persino Toni Negri (poi prese altre strade, com’è noto); Cesare De Michelis vi entrò nel ’65, appena laureato, e in breve si trovò a doverla gestire in proprio, ad averla tutta per sé. Diresse riviste, ad esempio Angelus Novus con Cacciari, ebbe una carriera accademica (il suo primo saggio importante è su L’Illuminismo veneziano, pubblicato da Olschki nel ’66), fu presidente del comitato scientifico per l’edizione nazionale delle opere di Carlo Goldoni, e membro di quello dell’edizione nazionale delle opere di Ippolito Nievo); ma la casa editrice è stata sempre il cuore del suo lavoro, dove confluiva tutto.
Guardava alla tradizione gobettiana ed einaudiana, ma sapeva far di conto, e soprattutto sapeva trovare i libri, anche in modo visionario e apparentemente improbabile. Scoprì Susanna Tamaro nonostante fosse stata – e si risapeva – rifiutata in blocco da tutti gli editori, e quando se ne andò a pubblicare con Baldini&Castoldi Và dove ti porta il cuore seppe perderla con eleganza, a parte una brutta diatriba dopo il successo, sui titoli precedenti, di cui non si faceva ragione. Coniò uno scherzoso saluto, una sorta d’epigramma, rimasto celebre: «Amara Tamaro non t’amo più». Per rifarsi scoprì Margaret Mazzantini da un foto-servizio su un settimanale: in quel momento era una nota attrice, che stava però, diceva nell’intervista, scrivendo un libro. Folgorato, telefonò e le disse semplicemente: «Sarò il suo editore». Dopo un anno pubblicò Il catino di zinco: 100 mila copia, era nata una stella.
Intuì con anticipo la fortuna del giallo nordico, e senza snobismo aprì una felicissima collana, «GialloSvezia», tra i cui autori aveva un buon successo Henning Mankell. Fu quasi naturale, ci raccontò col suo solito understatement sornione, che gli venisse segnalata la trilogia Millenium. Non perse tempo, agì d’intuito su questo signor Stieg Larsson, ed ebbe ragione. Pubblicava sì i gialli ma anche la saggistica politica e sociale, come la Marsilio aveva fatto fin dall’inizio, e sapeva valorizzare autori più «difficili» dal punto di vista commerciale. 
Nel 2000 entrò nel capitale Marsilio la Rcs libri, pur lasciandogli una totale autonomia. Dopo la cessione del gruppo alla Mondadori, l’antitrust impose la vendita del marchio, e De Michelis riacquistò le proprie quote. Infine, l’hanno scorso, una nuova alleanza societaria con Feltrinelli. Ora alla guida come amministratore delegato c’è il figlio Luca. «Vivo di libri da sempre: li leggo, li scrivo, li stampo, li compro, li vendo, li colleziono ormai da più di 40 anni. – disse a un incontro pubblico, proprio a Cortina, otto anni fa -. Probabilmente non so fare altro». In quell’avverbio c’è tutta la sua ironia. E la sua grandezza.

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Paolo Mauri per la Repubblica
Cesare De Michelis avrebbe compiuto 75 anni tra pochi giorni: era nato il 19 agosto del ’43 a Dolo. È morto a Cortina d’Ampezzo, dove era in vacanza, nel giorno in cui cadono le stelle. Avrebbe sicuramente avuto qualcosa da ridire, perché gli piaceva discutere e magari andare controcorrente come fece qualche tempo fa quando si pronunciò per le grandi navi a Venezia che in molti, invece, osteggiavano.
Venezia era tra le sue passioni, ma pensava che fosse male amministrata da oltre quarant’anni. «Continuiamo a dire ai turisti: non venite». Era contro il numero chiuso. De Michelis aveva coltivato per tutta la vita due passioni: quella per la letteratura e quella per l’editoria. Passioni che si sono intrecciate fino a confondersi. Aveva insegnato all’Università di Padova e aveva diretto e poi presieduto la casa editrice Marsilio per un numero di anni che oggi appare quasi infinito. Volle festeggiare il mezzo secolo di vita della Marsilio alla Fenice, ripescando un’ormai antica azione musicale e teatrale di Luigi Nono, Intolleranza 1960.
Marsilio era entrata a far parte del gruppo Rcs, pur mantenendo la propria autonomia. Cesare, insieme alla famiglia, la riacquistò nel 2016 quando Rcs passò a Mondadori. Piccola e raffinata casa editrice, la Marsilio ebbe ad un certo punto la ventura (e l’abilità) di imbattersi in un bestseller come Stieg Larsson che con la trilogia del Millennium vendette ben cinque milioni di copie. Roba da industria culturale. O, se si preferisce, da colosso industriale. Cesare è stato anche l’editore del libro di Caprotti, il padrone dei supermercati Esselunga, Falce e carrello che era contro la Coop. Ma torniamo alle passioni. In un libretto di due anni fa, Editori vicini e lontani, pubblicato da "Italo Svevo editore", De Michelis ha raccontato la storia di alcuni illustri colleghi, come Salani, Bemporad, Gobetti e Formiggini, seguitando a riflettere sullo strano mestiere che faceva. Un mestiere-ponte tra scrittori e lettori, risalendo fino ad Aldo Manuzio. De Michelis raccontò una volta a Enrico Arosio dell’Espresso che suo padre, per la laurea, gli regalò, invece di una macchina, un pacchetto di azioni dell’allora piccola casa editrice.
Oggi la Marsilio è già da tempo amministrata dal figlio di Cesare, Luca. Dunque una storia che continua. L’amore per la letteratura resta il filo rosso della sua ricerca e non è sbagliato dire che l’interesse per la cultura veneta è di gran lunga quello privilegiato e non solo per gli studi su Goldoni e su Ippolito Nievo.
Una delle ultime volte che ho incontrato De Michelis a Roma è stato in occasione della presentazione della ristampa che Neri Pozza aveva appena fatto del Male oscuro di Berto, un altro autore veneto. Ma qual era il giudizio del professor De Michelis sul secolo da poco trascorso? Nel 2010 aveva raccolto diversi suoi scritti novecenteschi sotto il titolo Moderno Antimoderno per l’editore Aragno. Scriveva nella premessa: "Sono quarant’anni e più che il Novecento mi sfugge nella sua identità… non se ne sa ancora abbastanza". Un secolo, seguita poche righe dopo, "innominabile" proprio perché non si riesce a coglierne la cifra unificante, mentre resiste, come in un prisma, "la rifrazione cangiante di molti momenti decisivi e di qualche idea centrale". De Michelis, intanto, schierava i suoi autori, ribadendo le sue "lunghe fedeltà": Magris, Tomizza, Del Giudice, Lodoli, Antonio Debenedetti e, in chiusura, Susanna Tamaro che per primo aveva pubblicato riconoscendo il suo talento.
Di recente De Michelis aveva ricordato che la sua biblioteca contava ormai centomila volumi, molti dei quali antichi. Immagino avranno, prima o poi, una destinazione pubblica. Cesare era aperto al mondo, la sua casa era aperta agli amici e anche ai molti intellettuali che passavano per Venezia. Gli piaceva discutere e ci metteva anche un po’ di malizia, di provocazione. Ora Venezia sarà davvero più vuota.

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Francesco Giavazzi per il Corriere della Sera
Cesare aveva solo sei anni più di me. Eppure la generazione cui apparteneva si era formata in un mondo molto distante dal mio. Era la differenza fra chi nell’università aveva vissuto la prima parte degli anni Sessanta, il periodo delle due grandi emancipazioni, dal comunismo a sinistra e, dall’altra parte, da una borghesia che non era nata da una rivoluzione liberale, ma era legata ai valori cui faceva riferimento Alberto Moravia quando scrisse, a proposito del processo a Pier Paolo Pasolini: «L’accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana».
Molti che quel tragitto intrapresero a sinistra, finirono per perdersi. Non Cesare, che, ricordando quegli anni, scrisse: «Chi restò fuori da quel disegno fummo noi, che quando l’appello alla violenza divenne esplicito e inequivocabile, ci fermammo, scegliendo un percorso diverso e alternativo, e che di fronte alla loro apologia proviamo a riaffermare di aver avuto più lucidità e lungimiranza. La storia non è finita e neppure il conflitto, ma il sogno di superarlo una volta per tutte non c’è più e neppure la catastrofe “inevitabile” c’è stata. Ci sono invece tanti problemi irrisolti, tante questioni aperte, che aspettano non la rivoluzione, ma un paziente esercizio del rimedio».
L’esercizio di un uomo in cui non esisteva scissione fra cultura, politica, amici e affetti, e che a quel rimedio ha contribuito con una curiosità che non conosceva tregua.

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Paolo Isotta per il Fatto Quotidiano
Per fortuna Cesare De Michelis è morto nel sonno, senza accorgersene. Parlarne, per noi che restiamo, è un dovere di testimonianza. Culturale, affettiva.
Veneziano, era professore di letteratura italiana all’Università di Padova. Nel 1965 egli e il fratello Gianni rilevarono la proprietà della casa editrice nata nel 1961. Il nome è un meraviglioso programma. Marsilio, padovano, l’autore del Defensor pacis, considerato dalla Chiesa acerrimo nemico, è uno dei fondatori del pensiero politico moderno e della stessa moderna democrazia. La Marsilio è la casa editrice italiana che più di ogni altra ha il culto della libertà. Non solo per il fatto di ospitare voci libere, ma anche per quello di garantire libertà di espressione a scrittori diversissimi fra loro.
La casa editrice egli l’ha fatta sopravvivere e prosperare. Un colpo di genio di parecchi anni fa fu per esempio l’acquisizione dei gialli scandinavi. Un mondo! Se si pensa all’angustia dei vari commissari Ricciardi e roba simile, che oggi rappresentano il cosiddetto noir… Ma non solo. De Michelis fu capace di convivere con la Rizzoli. Poi chi la reggeva la mandò allo sbaraglio, essa andò alla Mondadori e lui e Gianni ebbero il coraggio di ricomprarsela, la Marsilio, di tasca propria. Oggi pochi imprenditori rischiano del loro, mi pare. Adesso – è cosa dell’ultimo anno – Cesare è riuscito a costituire un’alleanza con la Feltrinelli, che ha la migliore rete distributiva italiana.
Mi auguro che adesso che non c’è più qualcuno rilegga, o legga i suoi libri. Della letteratura aveva una conoscenza sterminata: credo fosse il più importante nostro settecentista. Ma la conoscenza si congiungeva all’amore. Egli amava la letteratura con una violenza quasi fisica; e questa si congiungeva con un’ironia tipicamente veneziana. Nella sua conversazione sentivi Folengo e Goldoni. C’era lo spirito pieno di bonomia di Cesco Baseggio e, a volte, il duro sarcasmo di Foscolo. Cesare non faceva nulla per celare il disprezzo che nutriva per tanti. La conversazione con lui era uno dei più rari piaceri che si possano avere.
Ormai sarà per me uno dei più eletti patrimoni della memoria. E torno all’uomo di cultura.
Abitava, con la sua Emanuela, in una casa di quella parte di Venezia ancora un po’ agreste, Dorsoduro. La mia preferita. È un luogo abitato dal silenzio. Una specie di casa colonica, anzi una coppia di case coloniche. La seconda, adibita solo a biblioteca. La prima, fra i libri qualche angusto corridoio permette il passaggio. Saranno centomila libri, acquisiti non per quell’avaro desiderio di possesso di certi collezionisti – il possesso fine a se stesso – ma per l’amore che vi portava. Dovevano essere centomila, più della stessa biblioteca di Giuseppe Galasso.
Quando scompare un uomo importante, l’umana vanità porta tutti a raccontare dell’ultima volta che l’hanno visto… A vantare l’amicizia che li univa al defunto. È una sorta di appropriazione, a non dire espropriazione. Debbo vincere il timore di apparire ridicolo se racconto che Cesare era per me un amico del cuore, un fratello maggiore. Mi seguiva con occhio severo e insieme pieno di indulgenza.
Il mio primo libro per la Marsilio uscì nel 2014, ed erano trent’anni che non riuscivo a scriverne uno importante. Negli anni mi sollecitava pazientemente, senza avere fretta.
Se ho vinto quella sorta di blocco letterario, nato anche dal mio esser allora troppo coinvolto nella critica musicale – quanti anni buttati! – lo debbo a lui. Il suo esempio mi sarà un costante aiuto per le mie prossime opere, da quella in bozze a quelle che scriverò. Se ne scriverò: oggi viviamo un giorno (carpe diem), mentre discorriamo il tempo invidioso fugge (dum loquimur fugerit invida aetas), e non dobbiamo fondare sulla certezza che altri ne verranno: quam minimum credula postero: dice Orazio, dell’amabile scetticismo del quale Cesare è stato uno degli eredi.