La Stampa, 10 agosto 2018
Quel ponte che unisce il populismo del 2018 alla rabbia del popolo dei fax
La copertina del magazine «New York» di questa settimana ricorda come l’ondata populista che sta travolgendo il mondo occidentale nasca dalla grande crisi finanziaria del 2008 e dall’impatto della rivoluzione digitale sulla società contemporanea. E, del resto, i movimenti politici primogeniti di quel terremoto sociale sono proprio americani: i Tea Party a destra e Occupy Wall Street a sinistra.
Nato come un movimento antistatalista contro il conservatorismo solidale di George W. Bush, i Tea Party hanno trovato terreno fertile nelle frange estremiste, nel sottobosco dei cospirazionisti e, infine, nel Partito repubblicano stesso. Occupy, invece, inizia come una protesta spontanea contro le crescenti ingiustizie sociali causate dalle grandi banche, ma è stato presto fagocitato dai movimenti anticapitalisti e no global che dopo il crollo del comunismo sembravano destinati a scomparire.Chi ha vinto la lotteria sono stati quei leader politici capaci di intercettare sia la paranoia antistatalista dei primi sia il vetero anticapitalismo dei secondi: Beppe Grillo e Donald Trump su tutti.
Ma se è vero ciò che ha scritto Giuliano da Empoli in «La rabbia e l’algoritmo» (Marsilio), ovvero che l’Italia è una specie di Silicon Valley del populismo, capace di anticipare l’infrastruttura ideologica della nostra epoca, da Di Pietro a Berlusconi, allora conviene fare un passo indietro rispetto alla crisi finanziaria del 2008.
C’è chi fa risalire l’origine del populismo contemporaneo italiano alle campagne contro la Casta iniziate nel 2006 sulle pagine dei giornali e culminate nella pubblicazione di numerosi saggi che hanno dato vita negli anni a seguire a un nuovo genere letterario di gran successo. Ma in realtà quella campagna pubblicistica contro gli sprechi della politica non è affatto l’origine, semmai è lo sfogo finale di un indottrinamento generazionale cominciato quasi quindici anni prima, nel 1993. Il 1993 è l’anno in cui si impone l’archetipo dell’uno vale uno, il primo richiamo, ancora semi analogico, alla democrazia diretta, il modello originale della disintermediazione politica che va di moda adesso. È l’anno in cui i partiti politici, le televisioni generaliste e i grandi giornali iniziano a invocare il fantomatico «popolo dei fax» che protesta via facsimile contro la classe politica, contro l’establishment e contro l’élite del Paese. «Il popolo dei fax» era il commentatore rancoroso dei social di allora, era la diretta indignata su Facebook, era qualcosa di simile al primo gruppo parlamentare grillino. Allora non servivano troll, algoritmi e bot russi, c’era «un popolo dei fax» tutto italiano che trovava sfogo in Di Pietro, il cui marketing politico una volta sceso in campo è stato gestito dalla Casaleggio Associati, nella Lega di Bossi e del neoconsigliere comunale Matteo Salvini, e nella sinistra ex comunista che si macerava tra nostalgia del passato e necessità di cambiare pelle. «Il popolo dei fax» aveva insomma la stessa composizione politica, sociale e popolare dell’attuale maggioranza di governo. Le stesse istanze, lo stesso lessico, lo stesso risentimento.
L’imprenditore fattosi politico Berlusconi, campione populista ma tutto sommato liberale, ha prosperato intorno a questa retorica salvifica del popolo contro le élite, sollecitandola ma in fondo anche contenendola. Il merito di averla tenuta fuori dal governo è anche della travagliata lungimiranza dei leader della sinistra, anche loro come Berlusconi impegnati a sfruttare elettoralmente il fuoco populista e allo stesso tempo a cercare di domarlo. Leggete gli articoli sul «popolo dei fax» negli archivi dei giornali e guardate sulle teche Rai i talk show di quella stagione, da Funari a Santoro e converrete che il populismo oggi al governo, il nostro populismo, è molto più radicato di quanto si creda. Ed è un guaio tutto italiano.