La Stampa, 10 agosto 2018
Libia, per la transizione c’è bisogno di un gruppo di contatto
Di nuovo la Libia. L’atto di ostilità del Parlamento di Tobruk verso il nostro ambasciatore dà la misura di quanto sempre impegnativa sia per noi la situazione. Tutti i nostri governi recenti, per limitarci a una ventina di anni a questa parte, si sono trovati ad affrontare in quel Paese una sorta di esame di maturità. Che si sia trattato di rinegoziare un complesso retaggio post coloniale con il regime di Gheddafi o di scegliere tra interesse e lealtà alleata nel gestirne la tragica caduta, ciascuno è stato messo alla prova e ha risposto a modo suo.
Spesso, accanto agli aspetti economici e energetici, ha prevalso soprattutto il tentativo di frenare i flussi migratori; solo a tratti, l’ambizione di giocare effettivamente un ruolo nella stabilizzazione libica. La responsabilità ha finito così per ricadere sul piano diplomatico prevalentemente sulle Nazioni Unite; mentre le indispensabili operazioni di contrasto all’insediamento del terrorismo jihadista incombono tuttora sugli strikes americani e, nel retroterra meridionale sahariano, sulle iniziative francesi.
Lo scrutinio attende anche l’attuale governo, che vi si accinge pianificando un’assise in Italia in autunno delle parti in conflitto, guardingo nel contempo verso un concorrente come la Francia, la cui azione è percepita confliggente con i nostri interessi. Due nodi dunque nel dossier libico, quello del metodo e quello della competizione, destinati ad intrecciarsi.
Sul piano del metodo, va detto subito che l’idea di una conferenza non è nuova. Da ultimo, vi ha fatto ricorso a fine maggio il presidente Macron, senza troppo successo per la verità e collocandola inopportunamente nel momento di vacanza post elettorale del governo italiano. Di peggio: ne è scaturita un’accelerazione a matrice francese verso la tenuta di elezioni in Libia, sicuramente premature e a rischio di destabilizzare ulteriormente il Paese. Non deve quindi stupire ora la nostra nuova iniziativa e ben venga la riflessione in atto sulla scelta dei partecipanti, gli obiettivi e i possibili seguiti.
Per i partecipanti, fin dall’inizio nella crisi libica si sono sovrapposti tre livelli, suscettibili di fornire utili indicazioni: quello intralibico, dove accanto al governo legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale, non si può prescindere dai molti che esercitano un controllo effettivo sul terreno (e anche la vicenda dell’ambasciatore Perrone ce lo ricorda); quello degli Stati arabi e islamici, confinanti o più lontani, pronti a soffiare sul fuoco dall’esterno sulla base di logiche securitarie e non senza connotazioni in alternativa islamiste o laiche; quello delle politiche di potenza più complessive proprie dei nostri partners e crescentemente della Russia. I protagonisti sono fin troppo noti per non identificarli, a condizione però di non far proliferare troppo il numero degli inviti (specie tra i libici), togliendo efficacia alle deliberazioni. Chiari sono poi gli obiettivi: ristabilire tempi e modi del processo di stabilizzazione della Libia, calendario elettorale compreso, non già secondo il capriccio dei promotori delle assise, ma concordandoli con gli interlocutori libici, i principali stakeholders esterni e con la garanzia delle Nazioni Unite. Quanto più preciso possibile, infine, il meccanismo individuato per i seguiti: è cruciale definirne uno che responsabilizzi direttamente anche chi ingerisce da fuori; una sorta di gruppo di contatto, meglio se formato dalle nazioni con interesse primario alla gestione della crisi, comprendente il rappresentante dell’Onu e incaricato di riunirsi quasi in permanenza per monitorare gli sviluppi e interfacciare le parti libiche. Nel complesso, insomma, l’ambizione di una nuova architettura della crisi libica.
Il tutto, avendo chiaro tuttavia che in Libia la posta in gioco è molto alta. E che il fenomeno dei flussi migratori ne è solo una componente, un sorta di by product, al cui contenimento non tutti sono interessati in egual misura. C’è ben di più: in primis, l’assetto istituzionale della Libia futura, che riguarda il complesso degli equilibri sul continente africano e in parte nel Mediterraneo; la ripartizione dei proventi energetici; la lucrosa gestione delle partecipazioni finanziarie; la partita mai sopita del radicamento jihadista; non ultimo il controllo degli innumerevoli traffici illeciti – non solo di esseri umani – che affliggono la regione. Non può meravigliare che i guastatori siano numerosi. Dobbiamo averlo ben presente, se vogliamo davvero difendere gli interessi nazionali e esercitare una leadership autorevole.
Venendo infatti dopo il nodo del metodo a quello della competizione: il meccanismo entro il quale andrà d’ora in avanti gestita la crisi libica è per l’Italia cruciale in sé; non può essere disegnato solo in competizione con gli interessi nazionali antagonisti che uno Stato o l’altro persegue. Anzi, quanto più solida sapremo proporre e realizzare una simile nuova architettura, tanto più efficacemente difesi saranno al suo interno anche i nostri interessi e contenuta ne sarà la competitività altrui. A questo fine, come sappiamo, la benedizione di Washington – che non considera comunque strategico il dossier libico – da sola non basta. Con la nostra conferenza sulla Libia ci giochiamo molto di più.