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 2018  agosto 10 Venerdì calendario

Saggi, interviste e discorsi ci rivelano l’anima comica di Philip Roth

Salinger, Mailer, Bellow e Malamud? «Sopravvalutati perché non sono riusciti a ritrarre con i propri libri l’America contemporanea». L’unica via per scrivere letteratura contemporanea? «Rifugiarsi in un sé immaginato come unica cosa apparentemente reale in un ambiente altrimenti apparentemente irreale». I mezzi di comunicazione? «L’attualità vanifica di continuo le nostre capacità di romanzieri mentre la cronaca estrae quasi ogni giorno personaggi che sono l’invidia di qualsiasi romanziere». Il segreto della scrittura? «Famiglia e religione come forze coercitive sono un soggetto ideale per i romanzi».
Già: Perché scrivere? È questa la domanda che Philip Roth rivolge a se stesso e chi legge gli scritti di non-fiction, compresi tra 1960 e 2013, raccolti in Why Write? (edito negli Stati Uniti da Library of America nel 2017 e in arrivo in Italia il prossimo 16 ottobre per Einaudi). Conferenze, saggi critici, discorsi pubblici, lezioni, interviste, alcuni già pubblicati in due volumi precedenti, Reading Myself and Others e Shop Talk.
In Why Write? Roth affronta – negli scritti degli anni ’60 e dei primi ’70 – la propria affermazione come scrittore: contrastando le critiche e difendendosi dalle accuse arrivate dopo la pubblicazione di Goodbye, Columbus e Lamento di Portnoy che vedevano entrambi i libri osteggiati dalla comunità ebraica. Una «diaspora» letteraria poi risolta con il Dottorato ad honorem del «Jewish Theological Seminary», forse anche perché i romanzi della trilogia «Americana» (Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana) sono molto permeati di ambientazione e morale ebraica.
Il Roth di Why Write? è la somma delle sue contraddizioni. Leggendolo si comprende ancora più a fondo che osservare con mordace ironia il mondo è il suo maggior talento naturale. Perché lui è un comico, più che un umorista o uno scrittore satirico. La differenza è che puoi essere umoristico o satirico anche senza uno scopo intelligente, mentre il dono per un comico, come per un musicista, è l’esserci nato.
Far ridere gli altri, sin dai tempi dell’adolescenza, è un ricordo ricorrente di Roth. Nel saggio di apertura, il meraviglioso Looking at Kafka del 1973, fa sentir male dalle risate il suo compagno di scuola ebreo chiamando Franz Kafka «Dr Kishka» (kishka in yiddish significa «intestino»). È forse il saggio più riuscito, e inizia con la descrizione di una fotografia dello scrittore praghese scattata nel 1924, l’anno della morte: «A quarant’anni – scrive Roth – Kafka ha uno sguardo intenso, umano, di stupefacente padronanza di sé tra paure e controllo». Roth racconta l’ultimo anno di vita di Kafka: l’allontanamento da Praga per andare a Vienna a curarsi e i suoi amori con Dora e Milena, come se lasciare la casa del padre per andare a morire sia stato per lui il solo modo per vivere e amare.
«Ingovernabile» è l’aggettivo con cui Roth definisce i toni da commedia di certi suoi romanzi, e i suoi lettori possono ricordare alcuni esercizi riuscitissimi di ars comica, come i monologhi di Alvin Pepler, l’ex concorrente di un quiz in Zuckerman scatenato, o l’imitazione di un pornografo intellettuale, basato sull’ultimo Al Goldstein in La lezione di anatomia. Nel frattempo, la sequenza in cui Portnoy visita la casa della sua shiksa (un ragazza non ebrea) per il ringraziamento e incontra i suoi genitori è un capolavoro di stand up comedy americana: «Come stai Alex? a cui ovviamente ho risposto Grazie. Qualsiasi cosa mi dicessero durante le mie prime 24 ore nell’Iowa, io rispondevo ’grazie’. Anche agli oggetti inanimati. Trovo una sedia, prontamente dico Mi scusi. Grazie».
La visione di Roth, però, è anche tetra come la desolazione; non ci sono momenti di quieta affermazione (l’ultima parola pronunciata dal padre di Zuckerman sul letto di morte sembra essere stata «Bastardo!»). Ma se in Samuel Beckett – il cui nome è molto citato in questo libro – la commedia è nera come il dramma, in Roth la commedia illumina la pagina, anche se ciò che illumina è sordido o triste. Perciò, quando comincia la seconda parte del libro, il Roth critico, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, diventa meno interessato a litigare con i detrattori – la sua comicità ha già svolto questo compito al posto suo – e si sottopone a una sorta di arresti domiciliari: le sue opinioni critiche si spostano sulle interviste con gli scrittori che più ha amato: da Primo Levi a Edna O’Brien, da Aharon Appelfeld a Milan Kundera e Isaac Singer. A Roth non solo piace parlare con loro, ma in un certo modo con loro si identifica e ne invidia il distacco iconico. Perché la serietà con cui perseguono la vocazione letteraria è rara in un’America che quando osserva il cappello di un giullare, come unica curiosità ha domande su «quanto è strano il cappello e quanto sia acuto il suono dei campanelli». «Quando sono stato per la prima volta in Cecoslovacchia – scrive Roth – mi fu chiaro di aver sempre lavorato in una società in cui come scrittore tutto va avanti e niente importa davvero, mentre per gli scrittori cechi che ho conosciuto a Praga, niente va avanti e tutto importa».
Roth traccia la propria traiettoria di scrittore anche in Writing American Fiction del 1960. Parlando del caso delle sorelle Grimes, due ragazzine uccise da un maniaco a Chicago nel 1956, descrive il circo mediatico che la loro morte ha originato. In una conversazione del 1974, Writing and the Powers That Be, ricorda la propria adolescenza e il proprio rapporto con il padre: «Se qualcosa mi pesava non era il dogmatismo, e l’irremovibilità, ma il suo illimitato orgoglio per me. Quando provavo a non deludere lui o mia madre non era mai per paura delle punizioni, ma di spezzare loro il cuore». Nella conferenza che chiude l’antologia – il discorso «The Ruthless Intimacy of Fiction» tenuto nel 2013 al Museo di Newark per festeggiare il suo ottantesimo compleanno – Roth dice: «Il vero compito che è stato dato a ogni scrittore americano dal tempo di Herman Melville e della sua balena, e di Mark Twain e il suo fiume: scoprire la più attraente, evocativa descrizione verbale di ogni minima cosa americana. Senza una rappresentazione forte della cosa – animata o inanimata – senza la rappresentazione cruciale di ciò che è reale, non c’è niente». Ed è questo, forse, il suo vero unico ultimo testamento.