il Giornale, 10 agosto 2018
Vivere con un microchip (in Svezia). Progresso o intrusione?
Il controllore delle Sj, le ferrovie statali svedesi, avanza lungo il vagone, i passeggeri mostrano il biglietto cartaceo o lo schermo del telefonino dove è memorizzato il codice a barre con i dati del pagamento. Uno tra di loro fa qualcosa di diverso: allunga la mano verso il lettore ottico e passa l’indice a pochi centimetri dallo schermo. Un «bip» segnala il via libera. Nulla di strano: il viaggiatore è uno dei 3.500 svedesi che si sono fatti impiantare un microchip sottocutaneo. Nella mano, e più precisamente sotto la pelle tra l’indice e il pollice, ha un cilindretto di forma e dimensioni simili a un chicco di riso, che gli è stato inserito con una siringa. Il microchip, che funziona con una piccola batteria al litio che si ricarica con il calore del corpo, contiene i suoi dati medici e bancari, i codici di accesso in ufficio o in palestra e tutte le informazioni che l’interessato vuole portare con sé. Tra di essi, appunto, il biglietto che la società ferroviaria consente di comprare via internet e di «caricare» direttamente sul proprio corpo.
In pochi anni, in pratica dal 2015, data di fondazione delle prime aziende del settore, la Svezia è diventata il Paese dei cyborg. Quando il termine fu inventato, all’inizio degli anni Sessanta, i cybernetic organism non erano altro che creature letterarie, frutto dell’immaginazione di qualche scrittore di fantascienza. Oggi iniziano a essere realtà, e Stoccolma è la loro capitale.
Secondo calcoli del settimanale The Economist delle circa 10mila persone che in tutto il mondo si sono fatte impiantare un microchip corporeo, un terzo vive in Svezia. Svedesi sono gli evangelisti del nuovo verbo. Come Hames Sjöblad: «Il corpo umano è la prossima piattaforma tecnologica», proclama. «Perché portare con sé un ingombrante smartphone o uno scomodo smartwatch se puoi averli direttamente inseriti sotto la tua pelle? Tutta la tecnologia che oggi è portatile, entro 10 anni farà parte di noi». Sjöblad è tra i fondatori di BioNyfiken, l’associazione svedese dei cosiddetti biohacker. Con il termine si indicano i ricercatori che si occupano di ricerca biologica in maniera non ortodossa, mescolando biologia e innovazione digitale. Nel nord Europa è particolarmente attiva la corrente dei cosiddetti «transumanisti», secondo cui l’uomo non ha ancora completato il suo percorso di sviluppo e la tecnologia consente di superare le barriere biologiche che non sono affatto date una volta per tutte. Grazie a trapianti anche a livello cerebrale, le capacità umane potranno espandersi fino a livelli ancora inimmaginabili. Uno tra i teorici più conosciuti a livello mondiale del transumanismo è Nick Bostrom, svedese di Helsingborg, che insegna al Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford e si è occupato di clonazione, della cosiddetta superintelligenza o della possibilità di trasferire la coscienza da un corpo all’altro. Anche alle sue teorie si è ispirato Elon Musk, visionario numero uno di Tesla: con altri imprenditori ha fondato Neuralink, che si propone di lanciare sul mercato entro quattro anni una vera e propria espansione cerebrale, una sorta di disco rigido supplementare che potrà essere impiantato nel cervello umano espandendo le sue capacità.
In un clima culturale sensibile a questi temi e generalmente ben disposto verso le nuove tecnologie, le start up svedesi del settore hanno retto meglio di altre all’inevitabile fase di ricerca e sperimentazione. È il caso per esempio di BioHax, nata nel 2013, che oggi ha tre sedi nel Paese e un ufficio a Londra. A fondarla è stato Jowan Österlund, autore dell’app utilizzata dalle Ferrovie di Stato, che ha dichiarato di essersi ispirato a un film del 1995, Johnny Mnemonic, in cui Keanu Reeves accetta di contrabbandare un software illegale che gli viene installato nel cervello.
Anche nell’avanzatissima Svezia, però, le possibilità offerte dai microchip sottocutanei sono per il momento limitate. Per essere davvero utile la tecnologia deve migliorare la sua diffusione e aumentare il suo campo di applicazione. Nella maggior parte dei casi, i cyborg scandinavi la utilizzano in pratica come sostituto delle chiavi per entrare in casa o in ufficio. Qualche azienda del settore hi tech ha già adattato le macchinette per distribuire il caffè: si «carica» una certa somma di denaro sul microchip e poi per ordinare una bevanda basta passare l’indice sul prodotto desiderato. In compenso, se le applicazioni sono ancora limitate, apertissimo è il dibattito sui rischi, in termini di privacy e possibile furto dei dati. Sui microchip attualmente utilizzati non vengono installati sistemi di tracciamento o Gps, ma il sistema, che si basa sulla tecnologia Rfi, identificazione a radio frequenza, si presta a un controllo pervasivo e illimitato. Una volta installato, il chip (che è totalmente passivo, nel senso che può essere letto dai sensori ma non può a sua volta leggere i dati contenuti su altri dispositivi) potrà fornire ogni tipo di informazione sulla vita di chi lo porta: da acquisti e abitudini, fino a spostamenti e stato fisico. È vero, molte di queste informazioni sono già tracciabili grazie a telefonini e carte di credito, ormai utilizzati quotidianamente. Ma i telefonini si possono spegnere e le carte di credito si possono lasciare a casa. I microchip no, salvo una visita dal chirurgo.