La Stampa, 8 agosto 2018
Pirati, utili canaglie
Un tempo li si considerava (malviventi e delinquenti di mare) brutti, sporchi e cattivi. Oddio, per la verità, lo erano, eccome. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, il giudizio è diventato assai più articolato, e la storiografia (in primis, quella economica) e (soprattutto) i cultural studies hanno portato a un significativo filone di revisionismo intorno alla pirateria che se non li ha convertiti in eroi poco ci è mancato. E, di sicuro, ne ha fatto degli antieroi maledetti ma tremendamente interessanti, e da indagare sfatando qualche pregiudizio. Del resto, a dare il proprio contributo alla loro «riabilitazione» ci si è messa pure l’industria hollywoodiana dell’immaginario mediante la saga blockbuster de I pirati dei Caraibi con protagonista Johnny Depp. E l’opzione del romanticismo pirata è sempre in agguato dietro l’angolo, perché le fonti documentarie a disposizione sono pochissime e lacunose, e a dominare, quindi, è inevitabilmente l’attività di interpretazione.
Così, si è ormai consolidato l’idealtipo dei corsari anarcocapitalisti (che, si può immaginare, sarebbero piaciuti parecchio al filosofo Robert Nozick), avanguardisti della Lex Mercatoria e incursori di una specie di «new economy» predatoria, dotati al proprio interno di regole etichettabili come liberali e democratiche (come ha raccontato, tra gli altri, il libro di alcuni fa di Peter Leeson, L’economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo, Garzanti). Ma si è fatta vieppiù strada anche un’altra versione, sempre anarcolibertaria ma «di sinistra», entrata prepotentemente nel dibattito politico odierno fra la lotta senza quartiere contro il copyright e i diritti della proprietà intellettuale in nome dell’open access (la cui storia è stata ben raccontata del professore dell’Università di Chicago Adrian Johns in Pirateria, Bollati Boringhieri), campagne e azioni (piratesche, ça va sans dire) di hackeraggio, Wikileaks (che stiamo però imparando a conoscere come molto più filoputinista che realmente indipendente da tutto e tutti) e i partiti dei Pirati tra la Germania e i Paesi scandinavi. A questa seconda corrente – molto simpatetica, da Christopher Hill a Marcus Rediker – appartiene anche un libro pubblicato da poco dall’editore italiano per antonomasia delle culture dell’anarchismo, Elèuthera: La vita all’ombra del Jolly Roger (pp. 288, euro 17) di Gabriel Kuhn, un tipo che oltre a studiarli ha una spiccata propensione a riproporre le gesta, riviste e attualizzate, dei pirati nella propria vita quotidiana. Di origini austriache (e già calciatore quasi professionistico), Kuhn (classe 1972) è un attivista radical e uno scrittore politico che vive in Svezia, di orientamento anarchico e influenzato dal poststrutturalismo di sinistra, che è riuscito a farsi dichiarare persona non grata dalle autorità degli Stati Uniti proprio per questo volume (uscito in edizione originale nel 2010). Nel quale ricostruisce l’età dell’oro della pirateria, che andò dal 1690 al 1725 ed ebbe come culla l’area caraibica, proponendo un punto di vista radical originale. Alla radice di tutto c’erano i «lupi di mare», come il famoso (sir) Francis Drake, ovvero i pirati del Cinquecento. Poi sono arrivati i «bucanieri”» (il cui sinonimo in area francofona era «filibustieri»), i cacciatori dell’isola di Hispaniola (attualmente divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana) della prima metà del Seicento, che alla fine del secolo si diedero alle scorrerie per mare originando la sottocultura pirata. Ed è una questione, giustappunto, di interpretazioni sin dall’inizio, perché coloro che per gli spagnoli depredati e saccheggiati erano i «pirati», diventavano per gli inglesi, gli olandesi e i francesi (che se ne servivano) dei «corsari», di fatto delle forze mercenarie che agivano sotto la licenza – coincidente con la «lettera di corsa» – di un’autorità legale e statale. Dei contractor, come si direbbe oggi, i quali mettevano in atto tecniche di proto-guerriglia. E la cui vita scorreva, all’insegna del filo rosso della violenza sanguinaria, tra la noiosa calma piatta della navigazione, l’adrenalina degli scontri armati, e la spasmodica ricerca del piacere (gioco d’azzardo e orge) al momento dell’approdo.
Un approccio all’esistenza che ne faceva, secondo alcuni studiosi, delle figure esemplarmente nietzscheane, intrise di una filosofia dionisiaca. Come pure, quando operavano in proprio e non per procura o al servizio degli interessi geopolitici e commerciali di una qualche grande potenza, gli attori di comunità nomadi alternative, identificate dalla bandiera del Jolly Roger (con le due tibie sormontate dal teschio su sfondo nero). E portatrici di una sottocultura autonoma estremamente conviviale e marcatamente ugualitaria. Giustappunto quello che, pur tra mille contraddizioni, ha reso la pirateria un simbolo da recuperare (e valorizzare) per svariati radicalismi della postmodernità.