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 2018  agosto 08 Mercoledì calendario

Se i nostri dati toccano il fondo (del mare)

Il paesaggio è piatto, verde, scolpito da bassi muretti a secco che delimitano campi d’orzo e poderi secolari. Non il genere di posto che siamo abituati ad associare con tecnologia e innovazione. Ma è proprio qui, nelle Orcadi, uno degli arcipelaghi più settentrionali della Scozia, che Microsoft sta testando un progetto più ambizioso: un silo a tenuta stagna di 12 metri, ancorato a oltre 30 metri di profondità sul fondale roccioso, e collegato alla terraferma da uno spesso fascio di cavi sommersi. La sorpresa è al suo interno: 864 server pronti a gestire tutte le necessità web degli abitanti della zona. Si tratta del progetto Natick: un nuovissimo tipo di data center sottomarino che punta a velocizzare il traffico internet, e al contempo a tagliare nettamente i consumi elettrici e l’impatto ambientale della rivoluzione digitale.
Un esempio tutto italiano è quello del centro ricerche Enea di Portici, dove di recente è stato installato il più potente centro di calcolo del mezzogiorno: Cresco 6, un’infrastruttura basata su un supercomputer targato Lenovo in grado di svolgere 700mila miliardi di operazioni matematiche al secondo, che università, aziende e istituti di ricerca potranno sfruttare, da remoto, per studiare i cambiamenti climatici, monitorare l’inquinamento, sviluppare nuove forme di energia pulita.
Ma oltre a essere fondamentali per le aziende, università e istituti di ricerca, i data center gestiscono l’intero universo delle app per smartphone, l’ecosistema dei videogiochi online, lo streaming audio e video. Dunque queste strutture si fanno sempre più ingombranti: il mercato dei data center cresce quasi del 10 per cento ogni anno, e tenerli in funzione ha un costo considerevole, sia economico che ambientale. Si stima infatti che circa il due- tre per cento dell’elettricità del pianeta venga destinata ad alimentare i data center, con un impatto in termini di inquinamento paragonabile a quello dell’intero comparto aeronautico. A cosa serve tanta energia? Per buona parte viene utilizzata per la climatizzazione. « Le sale dove vengono custoditi i server devono essere mantenute costantemente a una temperatura di 20- 25 gradi, e a condizioni di pressione e umidità controllate » , spiega Giuseppe Zummo, esperto di sistemi di controllo termico avanzati dell’Enea. « E nella maggior parte dei casi il raffreddamento richiede l’utilizzo di pompe di calore, le stesse che troviamo anche nei condizionatori domestici, che hanno elevati consumi in termini di elettricità».
È per questo che molti big della rete negli ultimi anni hanno iniziato a cercare soluzioni alternative, che coniughino il risparmio a una maggiore sostenibilità. L’esempio di Microsoft è uno dei più estremi: i suoi silos sommersi possono sfruttare la bassissima temperatura delle profondità marine per il raffreddamento, tagliando consumi e impatto ambientale. E se non tutti, per ora, possono lanciarsi in esperimenti così radicali, esempi simili non mancano anche sulla terraferma. « Il fatto è che le tecnologie di raffreddamento più diffuse sono piuttosto inefficienti, e i consumi dipendono molto da dove ti trovi – chiarisce Zummo – se l’impianto sorge in un luogo caldo, sei costretto a ricorrere all’elettricità per il raffreddamento. Se invece costruisci il data center in un posto come l’I-slanda, che non a caso sta puntando molto su questo settore, puoi utilizzare risorse naturali come acqua o aria fredda per raffreddare i server praticamente a costo zero». È quello che ha deciso di fare Google con il suo Hamina Center: un’ex cartiera ristrutturata ( investiti 350 milioni di euro) per trasformarla nel data center del futuro, raffreddato dall’acqua gelida prelevata direttamente dal Golfo di Finlandia attraverso un lungo tunnel sotterraneo. O ancora, quanto realizzato nel Green Mountain data center, un ex bunker della Nato situato all’interno delle montagne norvegesi, che grazie alle acque di un fiordo raffredda i server e li alimenta con energia idroelettrica. Con un impatto ambientale virtualmente pari a zero.
Non tutti però hanno a disposizione climi rigidi e acque gelate. E allora se il calore non può essere eliminato facilmente, tanto vale utilizzarlo: è la filosofia adottata di recente a Stoccolma, dove con il progetto Stockholm Data Parks si è deciso di incoraggiare la costruzione di data center a ridosso dell’abitato, a patto che il calore generato sia convogliato nella rete cittadina e utilizzato per riscaldare le case dei residenti. O quanto vuole fare Facebook a Odense, in Danimarca, dove spera di riscaldare quasi settemila abitazioni sfruttando il calore generato dal suo prossimo, enorme, data center. Per rendere sostenibile la rivoluzione digitale, insomma, bisogna puntare sull’innovazione tecnologica. E le possibilità inesplorate sono ancora molte. Sostituendo le ventole utilizzate per raffreddare i processori dei server con un sistema di raffreddamento a liquido, ad esempio, secondo Zummo si potrebbero tagliare del 40-50% i consumi attuali. E ancor di più potrebbe fare il cosiddetto solar cooling: una tecnologia all’apparenza miracolosa, che permette di sfruttare il calore del Sole per raffreddare un liquido refrigerante, con risultati paragonabili a quelli di una pompa di calore più tradizionale, ma senza consumi elettrici. Per ora – ammette l’esperto – non è mai stata sperimentata all’interno di un data center. Ma chissà che in questo modo un giorno il nostro paese non riesca a seguire l’esempio dell’Islanda, e trasformarsi in un paradiso per data center a impatto zero, sfruttando risorse naturali che certo non ci mancano, specie ad agosto: afa e solleone.