il Giornale, 8 agosto 2018
Giacometti, la potenza gracile che (ri)conquista l’America
Tornato a New York dopo molto tempo sono andato a rendere omaggio al dipinto che amo di più: Moulin de la Galette che Pablo Picasso dipinse a diciannove anni nel 1900 dopo la sua prima visita a Parigi. Un quadro che abita di norma al quarto girone del museo Solomon Guggenheim di New York, geniale invenzione elicoidale di Frank Lloyd Wright del 1943 e finita nel 1959. «Sorry sir, Moulin de la Galette is in the storage», «spiacente signore ma il quadro di Picasso adesso è nel magazzino», ammette imbarazzata l’inserviente cui mi rivolgo.
Il Museo Guggenheim è infatti occupato dalla terza esposizione pressoché totale delle opere di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero che si dedicò alla ricerca del dolore del corpo umano. Due i suoi soggetti prediletti: donne in piedi dal corpo scheletrico e uomini rugosamente lineari nell’atto di camminare. Il modello preferito era il fratello Diego, uomo di sofisticata eleganza e portamento. Alberto nacque un anno dopo il quadro di Picasso che vanamente cercavo, nel 1901, e morì nel 1966, dieci anni dopo il (probabile) suicidio di Jackson Pollock, americano autentico ammesso su insistenza di Duchamp nel salotto di Peggy Guggenheim che ebbe una crisi di nervi e smise di invitare Pollock quando lo sorprese ad orinare con orgoglio esibizionista nel suo caminetto, davanti ai suoi allibiti ospiti. Non riuscì invece ad avere Giacometti prima del 1965, un anno prima che morisse.
Il Guggenheim di New York ad un europeo può sembrare poco adatto per esporre un artista cresciuto fra le montagne svizzere immerso in una ricerca solitaria e indecifrabile. Ma già Leo Castelli, arrivato a Manhattan da una Trieste asburgica in cui si incontravano Umberto Saba, Italo Svevo, James Joyce e poi, dopo la prima guerra, Montale, Ferrero, Debenedetti, a New York aveva collezionato una decina di opere di Giacometti inseguito dal rivale Sidney Janis che morì a 93 anni, cosa che gli permise di mettere le mani su altre opere di Giacometti oltre che Legér e Mondrian. Fu quello il periodo dell’incubazione della vittoria di New York su Parigi che arriverà negli anni Cinquanta e Sessanta.
Alberto Giacometti era diventato parigino come tutti gli artisti fin dai tempi in cui amoreggiò col cubismo e l’astrattismo. È a Parigi che esiste la Fondazione Giacometti, protagonista in questa quasi integrale mostra di New York alla quale partecipa anche la Lavazza del caffè, rappresentata da Francesca Lavazza. La prima mostra fu organizzata nel 1955 da Solomon Guggenheim al 1071 della Fifth Avenue e Giacometti non c’era. La nipote di Salomon, la leggendaria Peggy, aveva per conto suo stretto un rapporto fortissimo con l’artista già dalla fine della guerra. La seconda mostra pressoché completa avvenne nel 1974, dodici anni dopo la morte dell’artista, nella rotonda del museo disegnata da Wright e quella che si può visitare oggi è la terza, dopo 44 anni.
Mi sono fermato a guardare i visitatori, per lo più molto giovani, molti asiatici e vedevo seguendo la traccia prescrizione pubblicitaria del quadro di Warhol «Venivano a vedere chi veniva» («They came to see who came»). Ho potuto dare uno sguardo lì come al MoMA e al Metropolitan alle nuove generazioni di visitatori entusiasticamente ignari, devotissimi senza avere, a giudicare dai commenti, la più pallida idea della sequenza temporale dell’arte moderna durante le sue magnifiche convulsioni del secolo scorso.
Giacometti fu l’artista del dopoguerra e non fu mai tentato, come fece Picasso, di darsi al «sociale». Viveva, appagato del suo mondo minimo. Dipingeva e scolpiva suo fratello Diego come un dio della grazia virile. Lui voleva apparire come le sue opere con occhi gonfi, sciarpa, spettinato compostamente, le dita di gesso, le rughe profonde come canyon, le stesse di cui martirizzava le sue opere finché la loro sofferenza non incutesse un pacato panico. Quella di oggi è una mostra da visitare dal basso verso l’alto, in senso inverso rispetto al canone di Wright secondo cui i visitatori sarebbero dovuti scendere lungo il sentiero elicoidale inclinato di tre gradi che crea una leggera vertigine. Didascalie e brochure sono ottime, ma guai a chi non sa l’inglese perché non è previsto né l’italiano di Giacometti, né il francese della sua vita a Parigi. E nemmeno lo spagnolo, seconda lingua ufficiale. Forse dietro questa scelta si nasconde la consapevolezza di una battaglia vinta da New York contro Parigi, capitale mondiale della cultura fino alla seconda guerra mondiale. Fu negli anni della guerra fredda, quando anche la Cia sponsorizzò l’arte moderna contro il realismo socialista, che avvenne il sorpasso. Fu allora che gente venuta dall’Europa costrinse gli Stati Uniti a dichiarare il loro primato dell’arte di fronte ai compromessi ideologici del vecchio continente. Il primo fu Michel Duchamp che mandò al diavolo la Francia quando Picasso e i cubisti si esaltarono, come i futuristi italiani, per la Grande Guerra. La goccia che fece traboccare il vaso fu la notizia dell’entusiasmo di Pablo Picasso quando, con Gertrude Stein, vide passare su Boulevard Raspail una colonna di camion diretti al fronte con la prima copertura mimetica: «Guarda! Sono i nostri cubisti! Siamo noi! Che bella guerra!».
Duchamp diventò subito una star rivoluzionaria a New York, dove salì ad occupare l’arco di Trionfo di Washington Square e poi scoprì artisti di strada che vivevano di sussidi come Jackson Pollock, talvolta imponendoli all’incerta Peggy Guggenheim. Leo Castelli passo dopo passo faceva il mercato. Quanto a Solomon Guggenheim, era americano ma educato nella stessa Svizzera di Giacometti, ciò che gli permise di capirne al volo l’importanza.
Giacometti finalmente venne a New York nell’ottobre del 1965 sulla «Queen Elizabeth». La foto lo mostra davanti allo skyline della città nella nebbia, i capelli al vento, lo sguardo nel nulla, il bavero alzato. Non aveva idea delle dimensioni e dei volumi della città e per questo non era stato accettato un suo progetto per il Rockefeller Centre che non aveva saputo soppesare nei vuoti. Eppure aveva speso una vita alla ricerca dell’armonia dello spazio in cui soffre l’uomo con una gamba in avanti e una donna scheletrica dal ventre spesso protuberante. Il suo viso sul ponte della nave mostra lo sgomento di fronte alla dimensione americana, così enorme, eppure così intima. Oggi, in eleganti teche giacciono ordinate le sue opere dagli esperimenti dada zurighesi a quelli cubisti. Peggy era andata a Parigi nel 1940 per comprare i primi Giacometti, in piena guerra. Lavori e ricerche che allora turbavano come oggi non è più possibile e solo chi ha memoria può sentirne il graffio e il dolore.