il Giornale, 8 agosto 2018
Valentino Zeichen ricordato da Aurelio Picca
Se avessi dovuto scrivere un pezzo sulla fisica atomica, l’avrei buttato giù con sette dita mozze o avrei digitato sulla tastiera con i denti. Anche su ciò che mi accingo ad argomentare e ricordare avevo dalle sette alle nove versioni diverse; oppure avrei potuto dire «no», non voglio scriverne. E invece ho detto «sì» per fedeltà, perché sono convinto che i morti ci abitano. E perché Valentino Zeichen, cioè il Valentinois fiumano scomparso due anni fa, colui che a mo’ di casa della Madonna – giunta come un meteorite dall’oriente a Loreto – si portò un pezzetto di patria levantina dall’Istria a Roma, è stato poeta romano di marmo e sfide; amico mio non di cene di «quantità» bensì di «qualità».
Dunque ne scrivo ricordando la nostra «ultima cena» (l’indomani fu colto da ictus); fotografandolo con la memoria a via della Frezza: io, lui e Simone Caltabellota. Lui che aveva la faccia di un bianco-grigio alla stregua delle opere di Paolo Cotani, peraltro suo grande amico di gioventù. Scendevamo dalla festa di compleanno di Antonio Gnoli, in casa di Alessandra Marino. Fu una cena mitica (non mi frega se al mercato delle parole questa è diventata una zoccola). Io li avevo raggiunti correndo in automobile da pazzo (l’ultima corsa della mia giovinezza?), attaccato al telefono con il poeta mentre rideva perché gli pareva impossibile che già avessi raggiunto Pomezia e poi Spinaceto e poi l’Eur e il Circo Massimo. A cena bevemmo tanto rosso e il Valentino lesse in onore di Antonio un epigramma; mentre io, ignaro di me stesso, imbroccai un paio di ottave a rima cantata che lo lasciarono interdetto. Ecco le sfide! Era da un po’ che gli dicevo: «Attenzione, potresti essere mio padre!».
Con Valentino Zeichen non ho mai avuto rapporti quotidiani, non ho mai fatto parte di quelle cene che in questo primo diario edito da Fazi, Diario 1999, il poeta elenca come la lista della spesa che, tornati a casa, mostra che il pesce è puzzolente, la tartana con poco aglio, i funghi gonfi e surgelati. Questo Diario, che per molti versi ricorda pasti da ex papponi per cani, non rientra nelle «sfide» tra me e lui come quella dove in pubblico, giacché mi descrivevo da patriarca, mi chiese la quantità degli spermatozoi. Caso volle che in tasca, per le mie analisi da ipocondriaco e perché allora dovevo verificare, avevo le risposte che davano gli spermatozoi combattivi oltre il settanta per cento. In questo primo Diario a anni dispari (1999) non ci sono le cene del venerdì con Luigi Ontani e spesso ancora con Gnoli. Anzi, sono citato in una, ma non ci sono mai andato. In quegli anni il Croupier era Franco Cordelli. Sto raccontando ciò per lanciarmi a dire che il Valentinois ha lasciato molti Diari, ma ora ne vediamo pubblicato uno solo che rassomiglia un tantinello agli appunti del Pontormo, o agli scritti di Leautaud e, leggete leggete... ricorda pure Un po’ di febbre di Sandro Penna per quella maniera sillabante, a matita, insomma da conto della spesa.
Tenendomi a freno e sulle generali, forse tutti gli scritti postumi potevano essere dati alle stampe insieme, ordinando, includendo e escludendo al fine di rendere una vera Opera che forse non avrebbe tenuto testa ai Diari di Musil, né a quelli di Jünger, né a quelli di Camus; tantomeno avrebbe raggiunto Zibaldone di pensieri. Epperò avrebbe tenuto alta la sfida di un uomo che è rimasto l’intera vita fedele alla sua infanzia morta, facendo appunto di una baracca sulla Flaminia una porzione di Patria. Un’opera così avrebbe meglio gareggiato e sfidato chi ha sempre sostenuto (egli stesso se ne serviva come maschera) che Valentino Zeichen (come scrisse Alberto Moravia) fosse un epigrammista e dunque un «neo-Marziale». L’opera completa non avrebbe fatto coriandoli ma corpo. Forse non una miniera di diamanti (chissà) ma un fiume zampillante almeno di una costante, estrema delicatezza dell’uomo – che già si evince dal volume edito.
Qui non citerò nulla. Dico che a parte il resoconto di cene surgelate o di agnello mal cotto, come ricorda in un tal giorno, in questo Diario 1999 si rivela quello che ho sempre sostenuto e misurato in privato senza dirglielo al Valentino, e cioè che l’epigrammista, il suo epigramma, non sono stati altro che una maschera. Una maschera o trincea per nascondere il segreto. È inutile scorrere le pagine del vocabolario Treccani. Alla voce «epigramma» non si legge solo componimento «di arguzia ironica e mordace», ma si aggiunge che, «originariamente» fu «iscrizione funeraria». Ecco il punto. Dietro il marmo epico e leggendario, dietro il flâneur e il dandy con i pantaloni tenuti in vita da uno spago, Valentino Zeichen è stato il poeta dal sentimento segreto. Il poeta che aveva nascosto negli epigrammi di una vita, e tenuta in vita invece nella baracca, la morte della sua infanzia. E poi la morte di sua madre.
Il poeta è morto. Il poeta ci canta dentro la verità come sanno bene fare i defunti. Il Valentinois l’ho conosciuto fine anni ottanta, nel 1990 presentò la mia raccolta di poesie Per punizione. Ci vedevamo poco. Ma ci sfidavamo molto. Quando uscì per la prima volta il mio poema L’Italia è morta, io sono l’Italia, nel quale racconto in poesia civile la questione dell’Ala mozzata di Fiume e della tragedia delle Foibe, Valentino mi disse a muso duro che quel libro non avrei dovuto scriverlo. Io, fuori di me e con gli occhi da matto, gli replicavo: «Dovevi scriverlo tu! L’ho scritto anche per te, non mi rompere il cazzo». Credo che il suo fosse l’estremo tentativo di non ricordare, di vivere solo quella e questa «Romaccia» dove a casa di chi ti invita si mangiano solo papponi. Valentino è stato l’amico dell’«Ultima cena», ma anche dell’ultimo gran pranzo, mi ci giocherei i testicoli. Al mio compleanno del 2016 mangiammo funghi porcini dei Colli Albani, carciofi alla romana, scampi e mazzancolle di Anzio a farci male, Saint Honoré da sturbo. E annaffiammo il tutto con una cassa di champagne. Eravamo non più di nove. Fummo felici. Fu molto felice. Grazie Valentino Zeichen, cantore dell’orfanatezza. Perdonami se non ho forza di citare i tuoi versi migliori (ne ho pudore, li cedo al lettore); e perdonami ancora se sto scrivendo questo pezzo fuori di testa, smidollato, con venti giorni di ritardo. Ma tu mi parlavi dentro, non mollavi. Però sai che non so tradire.