8 agosto 2018
I corsivi di mercoledì
Tramonto
il Giornale
Se voleva rendersi impopolare c’è riuscito. E ha scelto anche la strada peggiore per essere ricordato, da sconosciuto che era. Certo, potrà sempre tornare indietro. Ma già alle prime uscite, il governo del cambiamento si rivela un governo dello sfruttamento. Mai togliere un diritto acquisito. Per pochi o per molti. Il passato rimpianto si rivolterà contro di te. E i cattivi governi mostreranno il loro volto migliore. La mossa del ministro dei Beni culturali è il primo annuncio del declino. Perché toglie a tutti un bene immateriale come la gratuita contemplazione della bellezza. Cosa direste se vi facessero pagare i tramonti? Quanta poesia perderebbero? Un tramonto a 5 euro! Un’alba riservatissima a 10! Le opere d’arte, come i paesaggi, non sono beni di consumo. Non si paga per entrare in chiesa, dove troveremo Giotto, Tiziano, Caravaggio. I musei sono chiese laiche, del sapere razionale, che raccontano la gloria di Dio. È osceno pagare per vedere e conoscere le anime dei pittori nei loro dipinti. Occorre invitare, accogliere, favorire. I musei devono formare, educare alla bellezza, non fare soldi. Il beneficio verrà. E in molti piccoli musei non va nessuno, non appartengono alla comunità consapevole che bisogna coinvolgere, rendere complice. Gratuità d’accesso certa per gli italiani, tutti i giorni, trasformando i musei in laboratori delle scuole. Sfruttare le opere d’arte equivale a tradirle. Lo Stato deve, a suo e nostro vantaggio, proteggere e offrire la bellezza, non farla pagare. Mercificarla vuole dire vanificarla.
Se voleva rendersi impopolare c’è riuscito. E ha scelto anche la strada peggiore per essere ricordato, da sconosciuto che era. Certo, potrà sempre tornare indietro. Ma già alle prime uscite, il governo del cambiamento si rivela un governo dello sfruttamento. Mai togliere un diritto acquisito. Per pochi o per molti. Il passato rimpianto si rivolterà contro di te. E i cattivi governi mostreranno il loro volto migliore. La mossa del ministro dei Beni culturali è il primo annuncio del declino. Perché toglie a tutti un bene immateriale come la gratuita contemplazione della bellezza. Cosa direste se vi facessero pagare i tramonti? Quanta poesia perderebbero? Un tramonto a 5 euro! Un’alba riservatissima a 10! Le opere d’arte, come i paesaggi, non sono beni di consumo. Non si paga per entrare in chiesa, dove troveremo Giotto, Tiziano, Caravaggio. I musei sono chiese laiche, del sapere razionale, che raccontano la gloria di Dio. È osceno pagare per vedere e conoscere le anime dei pittori nei loro dipinti. Occorre invitare, accogliere, favorire. I musei devono formare, educare alla bellezza, non fare soldi. Il beneficio verrà. E in molti piccoli musei non va nessuno, non appartengono alla comunità consapevole che bisogna coinvolgere, rendere complice. Gratuità d’accesso certa per gli italiani, tutti i giorni, trasformando i musei in laboratori delle scuole. Sfruttare le opere d’arte equivale a tradirle. Lo Stato deve, a suo e nostro vantaggio, proteggere e offrire la bellezza, non farla pagare. Mercificarla vuole dire vanificarla.
Vittorio Sgarbi
Tartassati
Corriere della Sera
La tartassa è una specie di start up al contrario, azzoppa le imprese, impedisce loro di crescere. Teorico dei pericoli della tartassa è stato, ovviamente, Totò, nel film I tartassati, regia di Steno, 1959 (La 7, lunedì, ore 21.20). Il maresciallo Fabio Topponi (Aldo Fabrizi) deve fare un controllo fiscale nel negozio di tessuti del cavalier Torquato Pezzella (Totò), che tenta di corrompere l’ufficiale in mille modi. Pezzella cerca anche di farselo amico, procurandogli però solo guai e mandandolo all’ospedale. Nel film, la storia finisce bene (per via dei rispettivi figli che si amano, tipo Giulietta e Romeo), ma nella realtà il problema della tartassa esiste, eccome.
La tartassa è una specie di start up al contrario, azzoppa le imprese, impedisce loro di crescere. Teorico dei pericoli della tartassa è stato, ovviamente, Totò, nel film I tartassati, regia di Steno, 1959 (La 7, lunedì, ore 21.20). Il maresciallo Fabio Topponi (Aldo Fabrizi) deve fare un controllo fiscale nel negozio di tessuti del cavalier Torquato Pezzella (Totò), che tenta di corrompere l’ufficiale in mille modi. Pezzella cerca anche di farselo amico, procurandogli però solo guai e mandandolo all’ospedale. Nel film, la storia finisce bene (per via dei rispettivi figli che si amano, tipo Giulietta e Romeo), ma nella realtà il problema della tartassa esiste, eccome.
Tempo fa, la Corte dei Conti ha denunciato una pressione fiscale insopportabile soprattutto nei confronti dei «contribuenti fedeli», i veri tartassati dal fisco. Tartassare è un verbo onomatopeico e significa trattare male qualcuno con eccessiva durezza. E dunque, a maggior ragione, diventa un intensivo del verbo tassare. La tartassa è come il doppio brodo, una tassa formato XXL che costringe il cavalier Torquato (come Tasso) a prendere tre caffè per volta per risparmiare due mance. Il cavalier Torquato è vessato dal fisco ma è anche un po’ un mascalzone, all’italiana. Preferirebbe corrompere piuttosto che pagare le tasse. Per questo si aggrappa anche ai santi: «Sant’Agostino si interessava di tasse e ha dichiarato che se i tributi sono troppo alti, non è peccato non pagarli. Io obbedisco a Sant’Agostino, il patrono dei tartassati, per non arrivare nudo alla meta».
Il maresciallo Topponi fa il suo dovere, anche se il suo è un mestiere ingrato, anche se capisce che un conto sono le tasse e un conto le tartasse. E comunque il film ci regala una battuta che è un piccolo, grande compendio di fisiognomica (basta applicarla ai nostri attuali governanti): «Ognuno ha la faccia che ha, ma qualche volta si esagera».
Aldo Grasso
Maschi
la Repubblica
Maschi di razza bianca tra i venti e i quaranta – l’età della guerra – quasi tutti con i capelli cortissimi, giubbotti di pelle, felpe nere e occhiali neri, l’atteggiamento muscolare/marziale di chi presidia un territorio per allontanare un pericolo, respingere un nemico. Sono gli attivisti argentini di Pro Vida che manifestano contro la legalizzazione dell’aborto (foto pubblicata ieri su questo giornale), fronteggiando, falange di uomini, un corteo di donne. Ma per capire dove siamo, e di quale gruppo umano si tratta, ci vuole la didascalia.
Perché potrebbero benissimo essere, al primo sguardo, manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter – mai, comunque, da leader.
A un colpo d’occhio vincolato alle tradizioni novecentesche parrebbe un’antropologia fascista, o fascistoide. In Europa abbiamo imparato a chiamarli “sovranisti”, e le debite differenze storiche, territoriali, politiche, se non si vuole cadere nel luogo comune, vanno sicuramente fatte. Ma alcuni ingredienti ideologici si ritrovano ovunque, tra i supporter di Trump come tra quelli di Putin, di Orban, di Salvini. Il mito del Popolo come entità innocente corrotta dalle élite borghesi, la Nazione come fonte di purezza contaminata dal cosmopolitismo, la religione cristiana intesa come omaggio alle tradizioni, non certo come impegno solidaristico, una sempre meno malcelata omofobia, un diffuso antisemitismo, un vigoroso, quasi festoso antifemminismo, come se qualcuno avesse finalmente levato il coperchio al pentolone ribollente della frustrazione maschile.
Questo ultimo aspetto – il revanscismo maschile – è esplicito nel caso di Pro Vida e di tutti i movimenti analoghi, per i quali l’autonomia del corpo femminile è un attentato non “alla vita” – come dice una propaganda che di fronte all’aborto clandestino non ha mai fatto una piega - ma all’ordine patriarcale. Ma sarebbe il caso di considerarlo più estesamente, più attentamente, come una delle componenti fondamentali della grande revanche della destra politica (comunque la si voglia chiamare) in tutto l’Occidente.
È certamente lecito domandarsi quanto un’onda reazionaria di queste dimensioni attinga dagli errori delle democrazie, e/o dalla rigidità dogmatica di certi sbocchi del politicamente corretto: basti pensare alla scia non sempre limpida del movimento #MeeToo e allo zelo persecutorio contro molestie sessuali forse non così efferate da meritare la riesumazione venti o anche trent’anni dopo. Ma le dimensioni e la compattezza del neo maschilismo di destra sono tali da far capire che non possono essere, a nutrirlo, i codicilli e le fumisterie di quell’imponente corpus di libertà e giustizia che è il processo di autodeterminazione delle donne. C’è, evidentemente, qualcosa di molto più profondo e molto più sostanziale, a provocare tutte queste adunate di maschi in posa da maschi: e questo qualcosa è l’autodeterminazione delle donne in sé, della quale l’interruzione di gravidanza è una delle pagine più complicate e più inevitabili, con la legalizzazione a fare da discrimine secco tra un prima di sottomissione e un dopo nel quale le scelte della femmina contano, scandalosamente, tanto quanto quelle del maschio.
Se vale l’ipotesi che siano l’insicurezza del maschio e la sua disperata voglia di rivincita, uno dei motori delle nuove destre in marcia, allora andrebbe percentualmente ridimensionata l’influenza che la crisi economica ha sull’aggressività montante da un lato; e sulla crisi della democrazia dall’altro. È un’influenza oggettiva, quella della crisi economica, e di grande rilievo: ma se ne parla sempre come dell’unica benzina che alimenta il motore delle destre nazionaliste, insieme all’additivo, potente, della paura dello straniero. Molto meno si parla del brusco processo di respingimento, sia esso cosciente o istintivo, che le donne subiscono all’interno degli assetti del nuovo potere. Del trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orban e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra...) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana; degli undici maschi su undici nello staff social di Matteo Salvini; della presenza marginale, e quasi mai menzionata, delle donne nel nuovo agone mediatico, che sembra costruito a misura di maschio a partire dalla vocazione all’insulto, alla sopraffazione, alla prova di forza che soppianta ogni dialettica e ogni riflessione. Di più “maschile”, nel novero dei paesaggi sociali e dei passaggi storici, rimane solamente la guerra: alla quale, per linguaggio, per atteggiamento, perfino per abbigliamento, sembrano in qualche modo predisporsi i manipoli di giovani maschi già bene addestrati, in lunghi decenni di imbelle assenza dei governi (questo sì, un errore fatale della democrazia), nelle curve degli stadi di tutta Europa. E adesso molto visibili anche nelle piazze.
Michele Serra