La Stampa, 7 agosto 2018
Leonard Bernstein, il centenario d’un genio unico e irripetibile
Il 24 novembre 1963, due giorni dopo l’assassinio di John Kennedy e su richiesta della vedova Jacqueline, è Leonard Bernstein a dirigere la New York Philharmonic Orchestra nel concerto in memoria del Presidente. Non sceglie la Terza Sinfonia di Beethoven, con la Marcia Funebre, né la Patetica di Caikovskij, ma la Seconda Sinfonia di Mahler, detta Resurrezione. E dichiara: «A dispetto del nostro shock, della nostra vergogna, suoniamo questa Sinfonia nella speranza della resurrezione dell’anima di un uomo che amiamo e del realizzarsi degli obiettivi che lui si era prefisso. Piangendolo, dobbiamo essere degni di lui».
Nato un secolo fa, il 25 agosto 1918, a Lawrence, Massachussets, da una famiglia di ebrei russi emigrati, Lenny Bernstein è stato un musicista senza padri e senza figli. Una figura unica: direttore, compositore, pianista, divulgatore, saggista. Suo padre vendeva prodotti per parrucchiere da signora e voleva che il figlio lo aiutasse. Ma a 21 anni, già diplomato in pianoforte, Leonard si iscrive al Curtis Institute di Philadelphia, scuola d’eccellenza. La carriera inizia presto, ed esplode subito.
Nel 1948, trentenne, si imbarca sulla Queen Mary per una tournée in Europa e scrive un dialogo immaginario in cui descrive il suo sogno politico di «un mondo in cui ogni sintomo di nazionalismo è scomparso. Un mondo senza passaporti, un mondo che la Chiesa chiama Fratellanza universale in Dio, che i Comunisti chiamano l’Internazionale, che gli industriali chiamano Libero scambio, che i Democratici chiamano Eguaglianza assoluta e che i maestri di yoga chiamano essere parte del Tutto». Nel luglio 1953 il Dipartimento di Stato rifiuta di rinnovargli il passaporto; Bernstein è sotto tiro per la cosiddetta Paura rossa – la simpatia per i movimenti operai e marxisti – e la Paura rosa, cioè il sospetto di omosessualità. Ottiene il nuovo passaporto dopo essersi sottoposto a quella che definirà una «orrenda e umiliante esperienza».
Celebre quanto Herbert von Karajan, che non lo amava e lo invitò una volta soltanto nel suo regno della Filarmonica di Berlino, di Bernstein rimangono indimenticabili le interpretazioni di Bruckner e Mahler, gli sconfnati orizzonti timbrici che sapeva evocare, l’impasto sempre palpitante, mutevole dei colori dell’orchestra, la gestualità inimitabile: dirigeva con gli occhi, le spalle, i gomiti, la punta dei piedi, in una disarticolazione del corpo tanto incredibile quanto efficace. Compositore eclettico, non amato nell’ Europa del periodo delle avanguardie, dotato del dono della melodia, crea con West Side Story un capolavoro capace di rappresentare, in forma di musical, i conflitti razziali ed etnici dell’America contemporanea, nella contrapposizione tra le bande di polacchi e portoricani.
Amatissimo dal pubblico italiano, dirige la Callas alla Scala in Medea di Cherubini e Sonnambula di Bellini. Nel 1987, tre anni prima di morire, torna a Roma per Bohème in forma di concerto con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, di cui è stato Presidente, e che oggi lo celebra con l’incisione delle sue tre Sinfonie dirette da Antonio Pappano e con West Side Story come titolo inaugurale della nuova stagione. Al termine di quella Bohème il pubblico non se ne va, stravolto dalla magia di un’esecuzione capace di far sentire il soffio della morte che spegne Mimì non alla fine, ma, come un presagio, già durante il secondo atto, al Caffé Momus. Dopo 40 minuti eravamo ancora tutti lì. Bernstein andò in camerino, si fece la doccia, tornò in palcoscenico, indossando soltanto una vestaglia rossa. Lui, poteva permetterselo. E fu un’altra ovazione.