La Stampa, 7 agosto 2018
Se si vuol dare un futuro ad Alitalia meglio affidarsi a una compagnia che scegliere di nazionalizzarla
Ma davvero «se vuoi portare turisti in Italia, devi avere una compagnia di bandiera»? L’ha detto ieri Matteo Salvini, intervistato da Alberto Mattioli per La Stampa. L’aveva già detto Silvio Berlusconi quando nel 2008, anziché cedere Alitalia a Air France che la voleva, preferì fabbricare una cordata di investitori italiani.
Dal 2009, i bilanci sono sempre stati in rosso. Secondo Andrea Giuricin (Università di Milano Bicocca/Ibl), dal 2008 ad oggi fra bad company, cassa integrazione, ingresso di Poste, prestito ponte e perdite di esercizio della gestione commissariale Alitalia è costata al contribuente all’incirca nove miliardi di euro.
Per il nobile obiettivo di portare turisti in Italia? In realtà nel 2017 Alitalia ha trasportato meno passeggeri internazionali da e per l’Italia di RyanAir, Easyjet e Lufthansa. Se riteniamo davvero che per aumentare i flussi turistici sia necessario far leva sulle linee aeree (e non, per esempio, migliorare ordine pubblico, pulizia e immagine delle nostre città, a cominciare da Roma), tanto vale discutere con questi vettori, ciascuno dei quali fa già allo scopo più di quanto faccia Alitalia.
Azienda difficile: mal gestita dal pubblico, non ha brillato nemmeno in mano al «privato patriottico». Se non altro, dopo tante traversie lo Stato se ne era liberato. Poi ci hanno investito le Poste, offrendo così una sorta di garanzia implicita al nuovo socio di allora, Etihad. Quell’iniziativa fu presa da uno dei governi delle odiatissime élite. Il «cambiamento» di Salvini/DiMaio appare dunque in perfetta continuità con Letta/Alfano.
È normale che un leader accordi le sue proposte economiche al suo discorso politico. Si capisce perché Salvini gonfiando il petto dica «l’Italia non è in svendita» (salvo aggiungere che possiamo «attrarre investimenti»: ma perché qualcuno compri, dev’esserci qualcun altro che vende). Non si capisce proprio invece perché si sia scelto, come battaglia del grano, la nazionalizzazione di Alitalia.
Le possibilità di risanamento sono minime. È più probabile possa farcela un grande vettore internazionale, come dire: gente del mestiere, che il management selezionato dal governo.
Potremmo ipotizzare che salvare Alitalia, ancora una volta coi soldi dei contribuenti, serva a Lega e Cinque Stelle per guadagnare il consenso degli impiegati dell’azienda e delle loro famiglie. Si tratta però all’incirca di diecimila persone, in un Paese di 60 milioni. Fra queste, i piloti, di cui c’è elevata domanda e poca offerta nel mondo, troverebbero lavoro in pochi giorni, in caso di fallimento. Per quel che riguarda gli altri, costa senz’altro meno accompagnarli verso un nuovo lavoro che garantirgli il posto che hanno ora.Si suppone che l’orgoglio nazionale si alimenti di vittorie sportive (l’oro delle ragazze della staffetta ai Giochi del Mediterraneo), di traguardi scientifici (la nostra agenzia spaziale che scopre l’acqua su Marte), della bellezza e dello stile «italiano» che il mondo ci invidia, da Armani alla Ferrari.
Invece ora il gioco è al ribasso. La nazione chiede lealtà non perché tira fuori il meglio di noi, perché esalta il merito, ma perché protegge l’errore e sussidia l’inefficienza. Diceva Leo Longanesi che «la nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia». Scriviamolo anche sulle fiancate degli aerei.