il Giornale, 7 agosto 2018
Nel volo su Vienna d’Annunzio lanciò bombe di eroismo e goliardia
Nel Volo su Vienna c’è tutto Gabriele d’Annunzio, e molto di più. C’è il mito dell’eroe che rischia la vita per il bel gesto, c’è il cavaliere senza macchia e senza paura che lancia il guanto di sfida al nemico, e lo vince. Ci sono anche il romanticismo e il futurismo, la capacità bellica e il desiderio di pace, la preparazione tecnica unita all’audacia, l’amore per la vita e la capacità di rischiarla. C’è l’anticipatore e il modernizzatore d’Annunzio, inventore di un’azione – il lancio di volantini da un aereo, per fare pressione psicologica sul nemico – ancora praticata dagli eserciti di tutto il mondo.
Ci sono il genio della comunicazione e il dandy. C’è il d’Annunzio poeta e il condottiero rinascimentale che appena tredici mesi dopo avrebbe conquistato Fiume senza sparare un colpo – in divisa da Lanciere di Novara ma alla testa di una colonna di autoblindo – provando «una felicità ossidionale alla vista della città da conquidere».
C’è, in definitiva, l’amore per la bellezza condotta persino nella guerra, la bellezza che guidò tutta la sua vita, insieme al ritmo e al piacere, inteso nel senso più ampio.
C’è anche la più solenne, e insieme goliardica, celebrazione della Vittoria, quella che da cento anni festeggiamo come nostra ultima.
Eppure la Repubblica Italiana, con tutta la sua enfasi su quella Vittoria, non ha saputo né voluto fare niente per celebrare il Volo su Vienna. Niente, neanche un francobollino, neppure un volo delle Frecce Tricolori. Nemmeno un «grazie» o un timido «sì, mi ricordo» per quell’uomo che – tenente volontario a 52 anni, tre medaglie d’argento e una d’oro – resuscitò persino nel nemico l’immagine dell’eroe italiano.
Chiediamoci allora perché onori e celebrazioni ben maggiori siano andati a Francesco Baracca, grande eroe anche lui, ma alla fine vinto e il cui contributo alla guerra e alla Vittoria fu inferiore a quello di d’Annunzio. Il perché è semplice: Baracca ebbe il merito di morire invece di diventare, come probabilmente sarebbe diventato, ministro dell’Aeronautica fascista. D’Annunzio ebbe la colpa di non morire. Mentre edificava e ci lasciava il Vittoriale, patrimonio d’arte e di storia unico al mondo, attraversò il fascismo – fra l’accondiscendenza e l’opposizione – senza mai aderirvi davvero, senza mai ribellarsi davvero. Proprio come la maggior parte degli italiani.
E forse è proprio questo il motivo del suo castigo: di essere stato, una volta tanto, proprio come gli altri italiani del suo tempo.