Il Messaggero, 7 agosto 2018
Elliott Erwitt, novant’anni di meraviglie
Lo sguardo incerto del bambino, le mani che si stringono ai fianchi del nonno, in bici, nel viale alberato. Provenza, 1955. Il bacio tra i sorrisi, rubato all’indiscrezione dello specchietto di un’auto che consegna la poesia dell’istante allo sguardo di curiosi, appassionati, forse anche invidiosi. California, 1956. L’anno dopo, a New York, Marilyn Monroe, che legge in poltrona, morbidamente rilassata a creare complicità con l’osservatore. Poi, il trionfo di storie e Storia negli scatti iconici: Nikita Khrushchev e Richard Nixon a Mosca nel 1959, Jacqueline Kennedy ai funerali del marito ad Arlington, in Virginia, nel 1963, Che Guevara e Fidel Castro nel 1964 a Cuba. E così via a indagare – e immortalare – personaggi e momenti chiave del Novecento. Elliott Erwitt ha compiuto 90 anni lo scorso 26 luglio e il bilancio dei suoi quasi settant’anni di carriera – ha debuttato nel 1951 come assistente fotografo nell’esercito americano e nel 1953 è entrato nell’agenzia Magnum Photos, invitato da Robert Capa – è inequivocabile: ha viaggiato, fotografato, raccontato il secolo breve e l’inizio del nuovo millennio. E, di fatto, amando poco parlare di sé, foto dopo foto ha composto un magistrale autoritratto per sguardi.
LA MAGIA«La magia di uno scatto non è qualcosa di cui sei sempre consapevole sul momento – racconta – a volte la scopri guardando i provini». È questione di talento, ma anche di buona sorte. «Senza fortuna, non hai l’immagine. Devi essere paziente. O impaziente». A ricostruire le sue visioni ora, sono ben quattro esposizioni. Fino al 9 settembre, Lecce, presso il Castello Carlo V, ospita Elliott Erwitt. Personae, grande retrospettiva dei suoi lavori – oltre 120 – in bianco e nero e a colori, selezionati dallo stesso Erwitt nel suo studio di New York con la curatrice dell’esposizione Biba Giachetti.
A sfilare davanti al suo obiettivo e in mostra molti grandi, come Marilyn Monroe, Che Guevara, Sophia Loren, John Kennedy. Dal 27 settembre al 24 febbraio, Elliot Erwitt. Personae è alla Reggia di Venaria, nel torinese. A Treviso, il 22 settembre apre Elliott Erwitt: i cani sono come gli umani, solo con più capelli, fino al 3 febbraio alla Casa dei Carraresi: oltre ottanta foto, con video e documenti. Dal 13 ottobre al 27 gennaio, a Pavia, alle Scuderie del Castello visconteo, Elliott Erwitt. Icons, con settanta tra i suoi scatti più famosi.
Nato nel 1928 a Parigi da immigrati russi di religione ebraica, Erwitt cresce in Italia, a Milano, fino a quando, a dieci anni, a seguito delle leggi razziali, la famiglia torna in Francia. Bambino si sente cacciato dalla realtà che conosce e ama, da quel mondo che lo ha visto – e lo ha fatto – crescere. L’Italia lascia un segno importante nella sua idea di bellezza. Sono reminescenze della grande pittura e lezioni del cinema neorealista a costruire la sua idea di immagine. Nel 1939 la famiglia si reca in Usa e lui, cresciuto, si dedica alle foto commerciali. Il primo scatto? «Nel 1946 di un Chihuahua, accanto alle scarpe da donna». Poi, le lezioni di cinema, l’esercito, la conoscenza con Capa. Erwitt è giovane, cerca lavoro, porta sempre con sé il suo portfolio.
LA CARRIERA
«Durante i miei giri – ha detto in occasione della consegna dell’Infinity Award for Lifetime Achievement – ho incontrato Roy Stryker, ex Farm Security Administration, Steichen al Museum of Modern Art e Robert Capa». A Capa i suoi scatti piacciono subito. «Era interessato a me e mi ha promesso che mi avrebbe preso alla fine del servizio militare». Da qui l’inizio della Carriera con la maiuscola delle star dell’obiettivo.
Il modello è il lavoro di Henri Cartier-Bresson, nella ricerca dell’istante e della sorpresa, o meglio ancora del sorprendente che ogni momento, per quanto comune, porta con sé. Il motore è la curiosità che lo spinge a viaggiare frequentemente per trovare nuovi stimoli. Il codice, l’ironia. «Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere – afferma – è far ridere la gente». La visione, perlopiù nel bianco e nero di una poesia senza tempo. Il resto lo fa la storia. E lo fanno soggetti e scenari: sono i paesaggi dell’Italia del dopoguerra, ma anche le celebrità hollywoodiane, sono i reportage politici e le foto dedicate ai cani, ai quali «abbaia», dice, per suscitarne le reazioni. Sono le emozioni. Ed è la sua voglia di raccontare, guardando sempre al nuovo e allo scatto ancora da realizzare.