Corriere della Sera, 7 agosto 2018
Un Leone alla carriera per Vanessa Redgrave
Una leonessa a Venezia. Vanessa Redgrave è uno spirito libero. Una donna forte, vulnerabile, coraggiosa, pacata nei modi, ruvida nella sostanza, poco flessibile. Sarà lei, 81 anni, nata in una celebre famiglia di attori (il Clan Redgrave, lo chiamavano) a ricevere il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema.
Cominciamo dai ricordi?
«Ne ho tanti, nel 1994 vinsi la Coppa Volpi con Little Odessa di James Gray. Una ventina di anni prima ci capitò, a me e a Franco Nero, La vacanza di Tinto Brass, girato tutto nel Veneto, dove recitai con molta forza di volontà, io inglese, in dialetto veneziano. Ci portarono a visitare un manicomio dove tante donne venivano buttate senza pietà: giovani, più anziane, c’era chi doveva nascondere una figlia che lo Stato cattolico non voleva che nascesse, chi era finita lì dopo essere stata licenziata per essere andata in vacanza con la famiglia. Tinto Brass era un po’ anarchico e ne fece un lavoro sperimentale. In Veneto poi ho girato Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri, uno dei più grandi registi che l’Italia abbia avuto, e lo devo dire io, che sono straniera, visto che voi l’avete dimenticato».
Il Leone alla carriera spinge a tirare le somme.
«Vi dico subito che non ho né rimpianti né rimorsi. Ho lavorato con grandi registi, non importa se per un ruolo grande o piccolo. In Giulia avevo 6 minuti, non mi sembra un brutto film (due donne sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, lei vinse l’Oscar come migliore attrice non protagonista, ndr). Fred Zinnemann il regista aveva tecnici bravissimi. Non siamo solo noi attori a fare il cinema: siamo parte di un tutto. Io ammiro chi ama il cinema e non le celebrità. Non vorrei mai seguire le mode, la parola vanità non ha alcun significato per me».
Lei è stata Maria Stuarda regina di Scozia. Quale viene fuori dai tanti film sulla corona inglese?
«Se mi parla della corona, il mio ricordo più vivido va al principe Carlo che due anni fa, per il centenario della Somme, l’offensiva degli anglo-francesi nella Prima guerra mondiale per sfondare le linee tedesche, nei luoghi della battaglia recitò con grande profondità di spirito insieme con mia figlia Joely Richardson».
Quando la chiamano Vanessa la pasionaria…
«Io non faccio politica, ma parlo di diritti umani. Pochi giorni fa presentando Sea Sorrow-Il dolore del mare, il mio documentario sulla condizione dei profughi, ho detto che in Europa è stata violata la Convenzione Onu del 1951 sullo stato dei rifugiati. Ho avuto uno shock di rabbia per questa profonda ingiustizia, e farò tutto ciò che è nelle mie possibilità per denunciare questa vicenda senza fine: è il mio tributo a chi cerca aiuto. Nei prossimi anni l’Europa spenderà tanti soldi non per integrare e proteggere i migranti, ma per respingerli. Spero che nascerà un movimento per portare l’Italia davanti alla Corte internazionale, ma il problema riguarda anche noi in Inghilterra».
Per il regista Paolo Taviani, in Italia c’è un rischio di fascismo.
«Purtroppo non sono in molti che la pensano come lui. Ma il cambiamento è anche nelle persone, quasi antropologico. Ieri per strada un vecchio col bastone sulle strisce pedonali ha imprecato contro l’auto che lo stava mettendo sotto, e l’automobilista l’ha insultato. Io credo che questo sia il segno di tante cose. Vedo tanta aggressività brutale».
Come se ne esce?
«Io sono una cittadina. Esistono diritti umani, diritti sociali. Per fortuna ci sono ancora deputati che hanno a cuore la giustizia in ogni partito, ma quasi mai un governo rappresenta davvero un popolo. Bisogna occuparsi dei bisogni della gente. La mia generazione ha fatto molto, ma ha fallito. In Italia dopo il fascismo avete promulgato leggi che non permettevano il ritorno a quell’epoca. Eppure guardate quello che stiamo vivendo, e così negli Stati Uniti. La rinascita deve venire dall’educazione. Devo trasmettere quello che, grazie ai miei genitori, ho imparato».