Corriere della Sera, 7 agosto 2018
Carmelo Bene contro il cinema. Genealogia di un’invettiva
Nel millenovecentonovantacinque fui invitato a fare una trasmissione televisiva quotidiana dal Festival del Cinema di Venezia.
Era il centenario dell’invenzione del cinema, e si sentiva puzza di celebrazione lontano un miglio.
Allora, per arginare una deriva che sarebbe risultata stucchevole, pensai di registrare un’intervista con Carmelo Bene, le cui idee sul cinema mi erano note, per mandarne un pezzetto ogni sera, all’inizio di ogni puntata, di modo da precipitare il cinema in cinque minuti di dannazione prima di cominciare a scampanare sul suo secolo di vita.
Non fu un’intervista vera e propria: gli mandai per fax i titoli delle scalette di ogni puntata e poi andai nella sua casa di Otranto a registrare il monologo con cui, seguendo il filo che gli suggerivano i miei titoletti, lui rovesciò sul cinema la sua formidabile invettiva.
Non ho conservato il foglio con i titoli della scaletta, e non me li ricordo più. Ma non hanno importanza.
***
Il cinema, che non ha mai avuto cinema,
è sempre stato un plebiscito contro il buon gusto,
così come Nietzsche definisce il teatro.
S’attanaglia meglio del cinema.
Questa sala buia, o semi buia,
dove la gente va da tempo a sedersi
e non si capisce perché
a un certo punto si accenda un quadrato:
se lasciassero al buio anche quello, ecco…
Ma noi occidentali non siamo abituati,
c’è poco Oriente, ecco,
l’India facile non basta,
appunto,
a spegnere tutto,
come dovrebbe avvenire nei palcoscenici lirici, diciamo,
melodrammatici.
C’è sempre la regia,
il servizio buono,
tutte queste cose.
***
Non come la musica di Rossini, per esempio,
che è un precipitato di non eventi,
di non fatti,
o la musica di Verdi,
dove il teatro è già contenuto nella musica,
e non ha bisogno poi di ulteriori sviluppi dell’azione.
Scontato che attore derivi da, o debba il suo etimo ad agere,
e non ad agire.
Quindi, questa gentaglia che sfaccenda nel palcoscenico
ha alienato al teatro del Novecento tutto un pubblico
— salvo gli abbonati, questa élite delle piccole masse,
la tirannia delle plebi.
Ecco che vedono il n’importequoisme.
Il cinema non ne parliamo.
Insomma: è una celebrazione dei fratelli Lumière.
***
Perché non si può dire, dopo i Lumière,
cosa ci sia stato
— se togli quel minimo di autospavento cercato a tutti i costi,
quell’attimo di smarrimento di certe tribù africane
davanti al treno dei Lumière —
io penso che la commemorazione duri dall’Ottocento.
È quella, che si perpetua.
Una celebrazione dove si finge d’incontrarsi,
organizzata per una specie di turismo in massa, gazzettiero;
una specie di Las Vegas povera,
per giornalisti di colore,
non poi tanto colorati,
né coloriti.
S’arrangiano, negli abbaini…
***
Non ha mai avuto una scrittura.
La scrittura cerca solo la scrittura.
Ogni autore deve innanzitutto far fuori se stesso
ed «essere straniero», ha detto giustamente Deleuze,
«nella propria lingua».
Lui lo attribuiva a me perché io non adopero mai,
in teatro, la traduzione simultanea,
neanche all’estero,
neanche se mi producessi per i pigmei, o
per i russi, o per i
lapponi [...].