Corriere della Sera, 7 agosto 2018
In morte dello chef Joël Robuchon
Mai più di quattro ingredienti per piatto, perché «niente mi irrita come mangiare qualcosa che non capisco». E un’idea di cucina semplice, confortevole, in cui il è cibo, non la tecnica, a guidare lo chef. A pochi mesi dalla scomparsa di Paul Bocuse, lo scorso 20 gennaio, la Francia perde un altro grande della sua gastronomia: Joël Robuchon, 73 anni compiuti da poco, il cuoco più stellato della storia – nel 2016 era arrivato a 32 stelle Michelin nei suoi 26 ristoranti in giro per il mondo, ora scese a 29 – scomparso ieri a Ginevra dopo una lunga lotta contro un tumore al pancreas. Un lutto inatteso: operato un anno fa, come ha riportato il sito web di Le Figaro, Robuchon era sì indebolito ma ancora attivissimo. L’ultimo suo viaggio in Giappone, per lui Paese del cuore, risale a maggio. E nello stesso periodo aveva inaugurato la sua ultima boutique a Parigi, dove accanto ai piatti si poteva degustare il sakè, distillato di riso nipponico.
Robuchon, compianto anche dal presidente francese Emmanuel Macron («Con la sua scomparsa e quella di Bocuse la nostra gastronomia è quest’anno dolorosamente in lutto, ma al tempo stesso è forte della viva e vibrante eredità dei suoi grandi chef», si legge nel comunicato dell’Eliseo) lascia dietro di sé tutta la forza delle sue tre vite. Anzi quattro: originario di Poitiers, figlio di un muratore e di una casalinga, sarebbe dovuto diventare sacerdote. Ma in seminario passa più tempo in cucina con le suore «a pulire le verdure» che a studiare le Scritture. A 15 anni è apprendista in un ristorante, a 16 vince la sua prima gara gastronomica e nel 1974, ventinovenne, è a Parigi a dirigere una brigata di 90 cuochi all’hotel Concorde Lafayette. Nel 1981 apre il suo locale, Le Jamin: tre stelle in tre anni. Competitivo, fama da duro, è in questo periodo che si oppone alla nouvelle cuisine, la nuova idea di cucina fatta di scenografici virtuosismi, proponendo come piatto-cifra un purè di patate ratte, varietà francese «dal retrogusto di castagna». Patate, burro, latte, sale. Quattro ingredienti, e chi lo ha assaggiato giura fosse il più buono del mondo. I critici concordano: nel 1990 la guida Gault et Millau lo proclama «cuoco del secolo». Ma lui aspetta i 50 anni, come si era ripromesso, e va in pensione: «Ero stanco della pressione, la morte improvvisa di colleghi come Alain Chapel e Jean Troigros mi aveva spaventato. Non volevo crepare d’infarto prima di aver visto una montagna con la neve», ha raccontato poi.
Ed ecco che inizia la terza vita, quella dei libri, delle trasmissioni tv (storico lo show Bon Appétit Bien Sûr, in onda dal 2000 al 2009 su France 3), dei viaggi. Cina, Giappone, Spagna. In un tapas bar capisce che la gastronomia è convivialità e pensa a un nuovo format, l’«Atelier Robuchon»: cucina a vista, clienti seduti al bancone, niente prenotazioni. Nel 2003 apre a Tokyo e Parigi, poi in tre continenti. La pensione è finita, comincia la vita numero quattro: un impero gastronomico, l’alta cucina replicabile ovunque grazie a rigore e formazione, stelle a pioggia, ex allievi illustri come Gordon Ramsay. «L’unico a cui abbia mai tirato dietro un piatto: dei ravioli agli scampi, non li aveva fatti bene. La cucina è comfort, ma prima di tutto precisione».