Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 07 Martedì calendario

Così la Cina fa i soldi con i panda

Per la Cina i panda sono «tesori nazionali», per il mondo sono il simbolo di una grande battaglia per la protezione degli animali coronata dal successo. Il panda gigante era in via d’estinzione quando nel 1961 il Wwf lo scelse come sua mascotte, dal 2016 la specie non è più considerata «in pericolo», ma solo «vulnerabile».
Pechino spende circa 225 milioni di dollari all’anno per proteggere i «da xiongmao» (il nome in mandarino significa grande orso-gatto): è una cifra di gran lunga superiore ai fondi stanziati per preservare qualsiasi altra specie animale. Qualche scienziato occidentale ha sostenuto che la specie è comunque condannata anche a causa della sua «pigrizia sessuale» e che i fondi potrebbero essere utilizzati per altre imprese più remunerative.
Però ora l’Accademia cinese delle scienze sociali ha pubblicato uno studio sulla ricaduta puramente economica dell’investimento nei panda: 709 milioni all’anno incassati per i biglietti d’ingresso al centro di protezione e riproduzione di Chengdu e per l’affitto agli zoo in giro per il mondo (un milione l’anno a coppia); 1,9 miliardi per l’impatto del miglioramento dell’ecosistema nella regione cinese dove si trova l’habitat naturale dei panda. Quindi, 225 milioni investiti ne fruttano 2.609: un affare.
L’ultimo censimento di questi orsoni bianchi e neri dallo sguardo perennemente triste e tenero ha contato 1.864 animali liberi e in salute sparsi in una sessantina di riserve naturali costituite nelle montagne delle regioni occidentali cinesi del Sichuan, Shaanxi e Gansù. In più, ci sono altri 376 panda in centri di ricerca e parchi zoologici, 70 allevati fuori dalla Cina.
Sembra una storia virtuosa di difesa della natura e in gran parte lo è. Ma ci sono alcuni problemi e sospetti di sfruttamento politico-commerciale. «Per certi versi quella dei panda giganti è la specie più fortunata della terra, per altre è solo vittima della simpatia del suo muso: l’uomo lo protegge non per ragioni scientifiche o perché sia fondamentale per l’ecosistema, ma perché è diventato politicamente importante», ha detto al Financial Times il professor Wang Dajun della Peking University.
Pechino tratta i suoi panda giganti come ambasciatori, inviandoli in missione nei Paesi che considera strategici per la sua diplomazia. Non è una storia nuova, perché il primo caso risale all’anno 685, quando l’imperatrice Wu Zetian della Dinastia Tang donò due panda al vicino Giappone. Oggi che la forza di una nazione si misura anche in «soft power» i panda sono stati posti al servizio permanente effettivo della strategia amichevole di Xi Jinping verso alcuni Paesi.
Uno studio dell’Università di Oxford ha seguito le orme dei 70 panda prestati dalla Cina agli zoo di 20 nazioni straniere. E ha rilevato che ormai vengono affidati (affittati) solo a quei Paesi che stringono accordi commerciali di particolare rilievo per Pechino, in particolare per la fornitura di tecnologia e materiale nucleare. È successo per Canada, Francia e Australia (il Paese con le più grandi riserve di uranio). Ha un suo significato il fatto che al momento negli zoo europei ci sono 18 panda cinesi, in quelli degli Stati Uniti solo 12. Per ricevere gli animali si muovono capi di Stato e di governo: nel 2017 la cancelliera Angela Merkel esultò felice come una bambina davanti a Xi Jinping quando furono consegnati al Tierpark di Berlino Meng Meng e Jiao Qing. Un milione l’anno per dieci anni, una bella spesa, ma la signora Merkel sa come si fanno gli affari, anche con gli orsi.