la Repubblica, 5 agosto 2018
Trova una Fender e mettila al museo
Oscura patologia di una compagna di vita. Fuori sembra tutto come prima. Il sole splende sulle colline di Hollywood: “We always hear that crazy sound!”, avverte un manifesto pubblicitario. Negli studi di registrazione di Los Angeles le chitarre elettriche entrano allo stesso ritmo dei sandwich, dei barili d’acqua potabile e degli elettricisti. Nulla fa sospettare che se la passino male. Esce Low di Lenny Kravitz e la chitarra elettrica sostiene l’impalcatura dell’intera canzone. La chitarra è ancora la regina.
Eppure qualcosa non torna. Qualcosa è cambiato. Più che raccontare il presente sembra quasi che la chitarra elettrica racconti un’epoca conclusa: la sua. I segnali dell’industria sono allarmanti. I due marchi storici, Gibson e Fender, sono in crisi. La Gibson è in bancarotta, la Fender ci sta arrivando. La parola chiave non è più successo ma debiti. I ricavi degli ultimi sei anni sono stati definiti “indecorosi": 30 per cento in meno. La catena di distribuzione più celebre e ramificata, il Guitar Center, è in rosso per quasi due miliardi di dollari. Dopo aver cosparso il pianeta di milioni di esemplari, alcuni dei quali utilizzati da indonesiani che fanno il verso ad Alan Sorrenti (come i Mondo Gascaro), potrebbero chiudere bottega. «La colpa», dicono i costruttori, «è di internet, dei fai da te, dello streaming e del fatto, conseguente, che le case discografiche si sono concentrate su generi ultra-ritmati, l’ultima frontiera dell’elettronica domestica ma anche un ritorno a una tribalismo senza sfumature».
La chitarra non è più al centro della cultura musicale giovanile (forse perché quella cultura non è più giovanile). Ci sono foto di gruppi in cui non c’è più. Nel migliore dei casi è ai margini dell’inquadratura: “La chitarra elettrica? Ho un rapporto conflittuale, a volte la odio a volte non mi dispiace sullo sfondo”, precisa Alice Merton, la ragazza divenuta celebre con l’ossessiva No roots. La chitarra accomunava, poi non più: “Una sera mi sentii un personaggio da circo”, disse Eric Clapton prima di annunciare l’addio ai concerti.
«Stiamo perdendo la coscienza e l’emozione della chitarra elettrica», spiega Franco Mussida, insegnante di musica e leggendario chitarrista della PFM, «la Gibson era la Harley Davidson delle chitarre, la Fender mise più in risalto il metallo, il suono era più squillante». Il primo suono modificato attraverso il distorsore fu quello di Satisfaction dei Rolling Stones. E il primo solista maledetto fu Hendrix. «Andy Summers e The Edge davano la sensazione che fossero in tre a suonare lo strumento». Pareva impossibile tornare indietro. È stimato che dei cento dischi più venduti in Usa e Regno Unito solo il 15 per cento si può definire guitar- driven,a traino chitarristico. Una minoranza composta da un’umanità residuale. Dal centro alla periferia della musica in pochi anni. Segno che il rock, per dirlo con un aggettivo atroce, è stale, stantio. La chitarra elettrica era la giovinezza. Ora definisce un’insperata senilità. Nella pubblicità di una cooperativa compare una chitarra elettrica ma la suona un signore col codino e i capelli bianchi. L’oggetto fatato è ancora nelle stesse mani, le mani delle persone che mezzo secolo fa speravano di fare la rivoluzione e ora si domandano se quella rivoluzione ci sia stata o sia stato un sogno. I ragazzi di una volta riempivano le pareti con poster di Hendrix, Santana, Page e Gilmour. Immaginavano una Les Paul che aspettava le loro dita e i polpastrelli già incalliti. Gli adolescenti oggi faticano a credere che qualcuno prima di loro possa aver vissuto sognando di possedere una di queste chitarre che aveva un suono magico persino spenta. «Dove si dà ancora spazio alla melodia», prosegue Mussida, «trovi la chitarra elettrica, dove c’è solo testo e ritmo, no perché quello è il luogo in cui non occorre elaborare. Viviamo un’epoca involuta in cui l’offerta si limita a ritmo e parole; parliamo di musica ma c’è solo il ritmo che i ragazzi e le radio traducono in gioia, ma la gioia appartiene alla melodia e all’armonia, che sono sparite. In voga c’è un prodotto disidratato che nasce dall’universo degli ascoltatori più che dei musicisti veri e propri, a cominciare dai dj. Si usa il minimo indispensabile di un codice immenso. Così cresciamo generazioni emotivamente rattrappite».
L’ultimo singolo di un certo spessore a offrire un assolo dichiarato è stato The game of love di Santana, sedici anni fa. E pensare che c’è stato un giorno in cui la chitarra elettrica stravolse persino il folk di Bob Dylan. Nemmeno lui sapeva perché. Le corde dell’anima sono impolverate. «Ma la chitarra elettrica», auspica Mussida, «è un’identità emotiva che non sparirà».