Per Gassmann il ruolo è quello del regista: «Torno ancora una volta a far teatro in veste di responsabile del lavoro di altri attori».
Ha davvero accantonato la voglia di recitare?
«Il fatto è che nell’ultima mia interpretazione, quando quattro anni fa impersonavo il Riccardo III di Shakespeare ed ero arrivato a 300 repliche, ho subito un collasso in scena, sono come caduto da cavallo, e m’è rimasta la sensazione di poter cedere di nuovo».
Nessun ripensamento?
«Le confesso che ora m’è tornato il desiderio di stare davanti al pubblico. E ho un progetto: nella stagione 2019-2020 vorrei calarmi di nuovo, dopo una dozzina d’anni, nel ruolo d’un personaggio, il tirannico ed esilarante Caribaldi, che mi fa ridere e piangere, l’uomo ottantacinquenne de La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard, di cui avevo fatto anche la regia. Lo spettacolo fu rappresentato relativamente poco, e io so che oggi ho più consapevolezza per quella parte, e già m’immagino in palcoscenico, a ridosso d’una tenda scalcinata in una landa deserta, con la disperazione di chi non trova nessuno disposto ad ascoltarlo».
Questa condanna a non essere ascoltati è per lei il malessere del momento?
«Ci accorgiamo di avere leader che dicono tutto e il contrario di tutto, da Trump a Putin, da Orban a Erdogan. E sto male all’idea che tanta brava gente, in certi casi la maggioranza della popolazione, sia non bene informata, spaventata, incline a sostenere una politica respingente fatta di propaganda. Ci vorranno decenni, temo, per riconquistare queste persone. Io ormai mi affaccio anche di meno su Twitter, il clima di comunicazione è molto cambiato…».
In che senso trova diverso, oggi, un social come Twitter?
«Mi sono scoraggiato per i malumori che nascono a fronte delle mie campagne civili. Mi rendo conto che Twitter alimenta a volte risposte troppo facili e poco riflettute, reazioni gratuite e ostili e non di confronto. Gli sfoghi, le polemiche e le parole in libertà diventano linguaggi fini a sé stessi».
È un po’ questa sfiducia a convincerla a trasferirsi in agosto alle Hawaii?
«A me piace osservare i comportamenti delle persone, e lo posso fare solo dove non ci sono italiani che mi riconoscono. Nell’isola in cui vado non ce ne sono. C’è euforia, attività vulcanica, onde alte, cascate infinite, il più grande Buddha occidentale, e ho solo alcuni discreti amici del posto. Lì mi concentro meglio a distinguere i corpi, le anatomie, le ridicolaggini, le involontarie ottusità, tutte cose con cui lavoro negli spettacoli. In fondo, nelle mie scelte teatrali c’è un comune denominatore: dai pregiudizi di La parola ai giurati ai diritti dei lavoratori in Sette minuti, alla discriminazione in Qualcuno volò sul nido del cuculo, all’alienazione del lavoro su Alda Merini, al disagio degli stranieri di Roman e il suo cucciolo. A proposito, io mi chiedo, e non da comunista, ma da cittadino: dove dovrebbero andare gli zingari cacciati dai ghetti, dai campi nomadi?».
Lei è particolarmente interessato, si direbbe, ad approfondire sulla scena gli aspetti di una voglia di legalità…
«Sì, c’è proprio una vocazione del genere che m’ha spinto, quando vidi con mia moglie su Sky Fronte del porto, a pensare di slancio a una versione teatrale. C’ho trovato dentro il grido di chi vuole uscire dal marcio, e c’ho sentito anche una storia d’amore difficile ma piena di senso. Ho proposto un adattamento a Enrico Ianniello, che vive in Spagna, e lui, ispirandosi anche a una versione di Steven Berkoff, in due mesi ha ricavato un testo in napoletano sodo e vissuto degli anni Ottanta, a cui ho abbinato una mia scenografia supermobile costituita da due grandi pareti, una di architetture urbane e una di ferro arrugginito tipico dei porti. In più ci sarà lo spazio per videoproiezioni con filmati di quartieri ex malavitosi di Napoli».
Quale sarà la cifra umana del cast?
«Ho subito decisamente coinvolto Daniele Russo nel ruolo di Marlon Brando, adattissimo com’è per carattere, fisico e gambe a botte. E ho affrontato la bellezza di 300 provini, impiegando di proposito molto tempo per i colori e le facce di chi aveva il compito di mostrarsi in questa o quella parte, escludendo le fisionomie cattive alla Gomorra».
C’è Maurizio De Giovanni, l’autore de "I bastardi di Pizzofalcone" che lei interpreta in tv, che si dice fiero di un’altra sua regia destinata a un copione teatrale cui lui tiene tanto…
«Sì, è vero, questa stagione dirigerò anche una sua commedia che mi piace molto, Il silenzio grande, una vicenda famigliare molto complessa, protagonisti Stefania Rocca e Massimiliano Gallo. In questo caso il produttore è il teatro Diana di Napoli. Riflettendoci, lavoro bene con la scena napoletana, e con temi sociali o domestici dove c’è da alzare la testa».