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 2018  agosto 06 Lunedì calendario

L’algoritmo di Kojève

Credo abbia ancora qualche interesse domandarsi quale sia stata la vita intellettuale prima e dopo l’avvento dell’homo sovieticus. Quali tensioni e incertezze covassero nel cuore di certi russi che vissero in maniera traumatica il passaggio da un mondo contadino a un altro avvolto da efferatezze e utopie. Ebbene, un certo tratto in comune lo ebbero coloro che, pur sorretti da acute forze spirituali e religiose, provarono ad avvicinarsi alla scienza e in particolare alla matematica. Gli esempi più vistosi, su piani che solo in parte sembrano avvicinabili, ci vengono offerti da due straordinari protagonisti di questa storia: Pavel Florenskij e Alexander Kojève. Non mi sognerei di accostarli se non per il modo in cui, in certa parte delle loro vite, hanno affrontato le scienze esatte.
Florenskij fu considerato un purissimo talento delle matematiche, allievo di Bugaev si avvicinò al pensiero scientifico di Georg Cantor e in particolare agli sviluppi della relazione finito-infinito. Ma cosa c’entra Kojève, il cui nome è soprattutto associato a un seminario tenuto a Parigi sulla Fenomenologia dello Spirito? Poco prima di occuparsi di Hegel, questo russo trapiantato in Francia aveva manifestato grande curiosità per la fisica. È probabile che un tale interesse gli derivasse dall’assidua frequentazione di Alexandre Koyrè, anche lui russo, emigrato a Parigi e strepitoso storico della scienza. Fu Koyrè a proporre a Kojève di sostituirlo all’Ecole des Hautes Etudes. Ma nel 1931, cioè due anni prima che iniziasse le sue lezioni, Kojève scrisse L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (Adelphi, trad. di Sofia Moreno, a cura di Mauro Sellitto). Il libro resterà a lungo inedito contribuendo alla leggenda di quest’uomo che divorava mentalmente il mondo.
Quale motivo spinse Kojève a occuparsi delle scienze esatte e sperimentali? Il monito heideggeriano che la tecnica aveva soppiantato la metafisica si potrebbe qui intendere non già come una condanna ma come un’opportunità per leggere più a fondo il rapporto certo non semplice tra la filosofia e la scienza. A Kojève interessa cogliere e spiegare il diverso atteggiamento del mondo antico (si legga fisica classica) rispetto a quello contemporaneo in cui la fisica attraverso Planck, Bohr e Einstein rivoluziona le proprie basi.
Che un signore molto ironico ma anche addentro alle questioni religiose e filosofiche potesse approdare alle vertiginose letture dei testi dei grandi fisici del primo novecento può apparire bizzarro.
Che cos’è che lo attrae al punto da farsi coinvolgere così seriamente su una materia che non è la propria? Come altri contemporanei, è colpito dalla radicale differenza tra fisica classica e moderna. Dall’uso diverso del determinismo. Dal fatto che nella fisica classica – il cui punto più alto si tocca con Galilei e Newton – le leggi causali consentono una prevedibilità attendibile dei fenomeni fisici, per cui le stesse cause hanno dovunque gli stessi effetti.
Adottando, in tal modo, il postulato della continuità. Ed è abbastanza ovvio, come egli stesso riconosce, che il quadro teorico cambia radicalmente dopo la celebre conferenza che Max Planck terrà nel 1900 “sulla radiazione del corpo nero”, con la quale introduce il concetto di discontinuità in fisica. Concetto che verrà ripreso e approfondito da Bohr e Heisenberg, i due fisici che porranno fine alla spiegazione causale del mondo fisico.
Che non ci fosse o che si potesse dubitare di una relazione necessaria tra la causa e l’effetto già David Hume, in omaggio al proprio scetticismo, lo aveva dichiarato. Ma Kojève fa un passo ulteriore: rigetta il lavoro di quei fisici che tendono a identificare l’universo fisico con l’universo matematico. Per quanto si possa geometrizzare lo spazio fisico non lo si potrà esaurire, dal momento che il mondo fisico resterà pur sempre il solo spazio reale.
Negli anni Sessanta, tornando a riflettere su questi temi, Kojève scrisse un fondamentale articolo su Le origini cristiane della scienza moderna. Qui “moderna” non va intesa come quantistica, ma galileiana. Perciò: se Dio è all’origine di tutte le cose, la scienza, nell’adottare il principio di causalità, ne è per così dire la prosecuzione nel mondo fisico. Non c’è alcuna differenza, precisa Kojève, tra il cielo divino e quello matematico o matematizzabile. Fu nei primi anni del Novecento che l’accostamento tra mondo divino e mondo ipotetico-deduttivo venne meno.
La rivoluzione quantistica lasciò cadere il principio di causalità."Causa”, nota a questo proposito Mauro Sellitto nella postfazione, in greco voleva dire “colpa”, il termine era prevalentemente usato nell’ambito giuridico e religioso. La sua estensione nell’ambito della scienza trattiene il ricordo di un trauma (un urto che trasforma) e al tempo stesso richiama un sacrificio che è all’origine della capacità dell’uomo di creare similitudini, cioè di ristabilire un ordine precedentemente turbato. È questo sfondo in cui le leggi divine e quelle fisiche per un attimo sembrano toccarsi che si appanna nel passaggio dalla fisica classica a quella quantistica. Dio non è più una risorsa. Ma non è neanche un problema dal momento che la realtà è ormai solo un fatto statistico.
È significativo che due russi geniali con storie alle spalle molto diverse abbiano alla fine scelto soluzioni differenti. Florenskij scoprì gli immensi tesori della ortodossia religiosa bizantina; Kojève, come pochi ossessionato da Dio, preferì crearsi un universo in cui proprio Dio non avrebbe potuto metter piede e proclamò, con qualche baldanza, la fine della storia. Entrambi non potevano allora scorgere le conseguenze di tutto questo. Sapevano che non c’era più un Dio a dettare le tavole della legge. Non potevano sapere che un semplice algoritmo avrebbe preso il suo posto.