la Repubblica, 6 agosto 2018
Il nome vale più dell’opera d’arte
La domanda non è “essere o non essere” (questione troppo metafisica per i tempi che corrono), semmai come diventare un brand per essere qualcuno. Conta più la firma o l’opera d’arte? La risposta più vera e sconfortante l’ha data forse Damien Hirst: l’artista oggi è un brand. Una ricerca accademica – Peripheral Factors Affecting the Evaluation of Artworks appena pubblicata sulla rivista Empirical Studies of the Arts – mostra che se togliamo a un’opera d’arte la firma che ne acclara il prestigio, la ricezione cambia. I girasoli di Van Gogh piacerebbero allo stesso modo senza Van Gogh? Forse i girasoli sì, ma sulla Brillo Box di Andy Warhol è lecito avere qualche dubbio. Stefano Mastandrea, professore di psicologia dell’arte all’università Roma Tre, e William D. Crano, psicologo sociale alla Claremont Graduate University, hanno mostrato a 309 studenti, digiuni di storia dell’arte, otto riproduzioni di dipinti, tra cui paesaggi, ritratti, figure astratte, che potrebbero trarre in inganno, ricordando famosi quadri d’autore. Gli studenti ignari sono stati divisi in due gruppi, ai quali sono state mostrate le stesse opere, in un caso presentate come anonime, nell’altro attribuite a Monet, Van Gogh, Kandinskij e Picasso. Il risultato è che i quadri griffati sono stati giudicati più belli, più interessanti, più di valore.
Conclusione prevedibile: esporre quadri “importanti” attrae più pubblico e permette di alzare il prezzo dei biglietti. È spiegato perché le mostre stiano trasformandosi in pure operazioni di marketing. Attirano la gente, usando l’esca di un grande nome e poi non mantengono la promessa: antologiche di Caravaggio senza le opere chiave di Caravaggio, mostre di Monet con poche tele del pittore, riproduzioni 3D che sostituiscono gli originali.
La questione non è se una firma dà valore o meno a un’opera d’arte (l’orinatoio di Duchamp senza Duchamp sarebbe solo un arredo da toilette e la merda d’artista di Piero Manzoni non si sarebbe tramutata in oro), ma se la griffe è diventata sostanza.Nell’era della riproducibilità tecnica, l’aura si è spostata dall’opera alla firma. Lo scorso giugno Banksy ha organizzato una beffa luciferina: il misterioso graffitaro inglese ha inviato alla Royal Academy of Arts una sua opera, firmandola con un altro nome, un certo Bryan S. Gaakman (anagramma di “Banksy anagram"). L’opera è stata rifiutata, salvo poi essere accettata una volta presentata a nome Banksy. La storia si ripete.
Nel 1917, Marcel Duchamp propose l’orinatoio a una mostra, firmandolo R. Mutt. Lo strano oggetto, il suo più famoso ready-made, venne rifiutato dagli allestitori con la motivazione che non si trattava di arte. L’episodio apre il saggio di Arthur Danto L’abuso della bellezza. Inutile girarci intorno, la firma classifica un’opera come “artistica”. La stima del Salvator Mundi è schizzata da 50 a 450 milioni di dollari dopo l’attribuzione a Leonardo. Gli artisti oggi sono manager, gestiscono aziende, stipendiano operai, producono eventi e gadget: il panda-portachiavi di Takashi Murakami, il cane soprammobile di Jeff Koons, le t-shirt con i teschi di Hirst. Anche i musei sono brand, catene in franchising. Il marchio del Louvre di Abu Dhabi vale 400 milioni di euro. Jean Clair, che è un fustigatore spiritoso, lo ha definito “un aeroporto internazionale dell’arte”. Si può anche rimanere prigionieri del proprio brand.
J.K. Rowling si è sottoposta a una prova del fuoco (mai farlo).Nascosta dietro lo pseudonimo Robert Galbraith, ha pubblicato un libro per vedere cosa succedeva: «C’era un incredibile carico di pressione nell’essere la scrittrice di Harry Potter… quindi potete capire il fascino di creare qualcosa di completamente diverso e lasciare che stesse in piedi o fallisse per i suoi specifici meriti», ha confessato poi in un’intervista. Ma il thriller Il richiamo del cuculo, uscito nel 2013 a nome Galbraith, è stato un flop: a tre mesi dalla pubblicazione non aveva superato le 1500 copie. È bastato rivelare chi fosse l’autrice per vendere 7,5 milioni di copie in una sola mattina. «Essere all’altezza del proprio brand può paralizzare», dice Gabriele Pedullà. Secondo lo scrittore e critico letterario, il problema è più visibile oggi: «Ezra Pound sosteneva che la letteratura ha a che fare con la fiducia, ma nel passato il brand di uno scrittore si costruiva nel tempo, era frutto di un lavoro. Oggi purtroppo è una pura operazione commerciale». A proposito di marketing. Il caso più clamoroso è stato quello di J.T. Leroy, che raccontò il suo passato di abusi e droga nel memoir Ingannevole è il cuore più di ogni cosa. Un successo: recensioni entusiaste – tra cui anche quella della terribile Michiko Kakutani sul New York Times –, il film nel 2004 di Asia Argento. Fino a scoprire che era una bufala, che Leroy non esisteva, ma era un’invenzione della musicista Laura Albert.
Ormai la consacrazione di un artista avviene in tempi velocissimi e altrettanto velocemente si consuma. Un giorno si è alle stelle e il giorno dopo il brand si appanna. In tempi meno sospetti, Romain Gary, che nel 1956 aveva vinto il Goncourt con Le radici del cielo, risorse a nuova vita con lo pseudonimo Émile Ajar, sotto la cui copertura – mai svelata fino alla sua morte – scrisse quattro romanzi. Uno di questi, La vita davanti a sé, vinse nel 1975 un altro Goncourt. Nessuno sapeva che il misterioso autore del romanzo fosse lo stesso. La doppia vittoria era contro il regolamento del premio, ma Ajar seppe nascondersi. Per Gary fu una rivincita contro i critici che ormai lo snobbavano e i lettori stanchi di lui.
I falsari conoscono bene il valore di una firma. Eric Hebborn, uno dei più leggendari, spiegava che il brand è tutto: «Un’opera firmata da un artista famoso è un oggetto incantato e quell’incantesimo moltiplica il suo valore sul mercato», scrive nel Manuale del falsario. Un aneddoto, uno dei tanti su Picasso, racconta che una volta l’artista pagò il conto di un ristorante con un disegno realizzato al volo su un tovagliolo. Ma quando il proprietario gli chiese di firmarlo, Picasso rispose: «Volevo pagarle il conto, non comprarle il ristorante».