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 2018  agosto 06 Lunedì calendario

I giudizi di Alberto Moravia sugli altri scrittori

Moravia si annoiava facilmente. Questo lo portava a essere un conversatore impaziente al punto di voler sorprendere anzitutto sé stesso formulando, specialmente quando parlava di letterati e di letteratura, dei giudizi pungenti e capricciosi pronto a correggerli il giorno dopo. Ne ho avuto la conferma sfogliando la recentissima riedizione della Vita di Moravia (Bompiani), cioè l’autobiografia in forma di intervista dell’autore degli Indifferenti condotta da Alain Elkann con sapiente discrezione.
Da dove cominciare per rendere giustizia agli umori di Alberto, sorprendendolo diciamo così in flagrante? Mi sono ricordato di uno screzio, di un piccolo incidente che aveva gettato un’ombra poi dileguatasi (ma non del tutto) sui rapporti di Moravia con il premio Nobel Saul Bellow. Così mi sono affrettato a cercare nel folto e ghiotto indice dei nomi che accompagna l’autobiografia proprio quello dell’autore di Herzog. Sorpresa! Dopo averlo definito un po’ sbrigativamente autore di pagine leggibilissime (non sono ben di più?) ecco che cosa scrive A.M.: «Il motivo per cui ho simpatia per Saul Bellow è qualcosa che a un romano come me non può sfuggire: sembra un cardinale oppure un vescovo. Ne ha la benevolenza lungimirante e anche la sardonica prudenza. So che disapprova che mi occupi del tema sessuale. Ma questo è logico da parte d’un prelato d’alto bordo». Beh, concludere dando a un ebreo come Bellow del prelato d’alto bordo porta a ripetere, senza bisogno di altri commenti, quanto avrebbero detto i nostri padri latini, in cauda venenum!
È un’antipatia di pelle, non saprei come altro definirla, che ispira poco più avanti il ritratto in tre righe di Cesare Pavese. Vi si legge: «Era magro e alto, uno spilungone con i capelli tagliati corti. Era ispido, taciturno, ridacchiante». Poi, tagliando corto, Alberto aggiunge: «Lo conoscevo appena... ma era molto amico di Elsa». E allora? E con questo? L’insofferenza d’un grande scrittore per un importante scrittore poteva nascere dall’aver suscitato l’interesse d’una moglie impegnativa come Elsa? È improbabile. A sollecitare il sarcasmo di Alberto era ancora e sempre una ragione letteraria. Più avanti Moravia confessa di non sopportare quale lettore «i dialoghi di Vittorini e il parlato di Pavese». Il motivo ? Risentivano «dell’imitazione di scrittori americani anche minori come Saroian e Cain».
Nell’autobiografia, puntando scopertamente a stupire i lettori, Moravia si offre e ci offre una caricatura pungente più all’apparenza che in sostanza dell’autore della Nausea. Sartre, scrive, «era un uomo di straordinaria mobilità e voracità intellettuale. Piccolo, con occhi storti dietro le lenti, mi faceva pensare a uno di quei pesci negli acquari che si muovono a scatti e divorano tutto quello che gli capita in bocca. Forse è l’intellettuale più ambizioso che abbia conosciuto». Un paio di righe più avanti si legge però questa impegnativa confessione: «Mi piaceva ascoltarlo». A tale riguardo posso affermare di aver visto con i miei occhi Moravia in un sciccoso salotto romano «snobbare» la compagnia di tre fra i suoi amici prediletti cioè Carlo Levi, Guttuso e Pasolini per dedicarsi interamente a Sartre. Tra i due sembrava insomma esserci una sorta di complicità. Nasceva, si sarebbe detto, dal doversi difendere dai pregiudizi degli stessi detrattori, degli stessi inguaribili conformisti.
E venendo agli scrittori più vicini ad Alberto per cultura e per età o per esperienze? Amico di Soldati dall’adolescenza, nelle pagine dell’autobiografia evoca il suo Mario con ironia e affettuosità denunciandone il leggendario camaleontismo. «Mario c’è e non c’è, è sincero e recita la commedia» scrive per cominciare Alberto, ricordandolo un giorno con la barba e il giorno dopo con i soli baffi e poi passato un po’ di tempo di nuovo con la barba. A questo riguardo ricordo che Moravia si è divertito quando gli ho raccontato che nel ricevermi con una troupe televisiva per un’intervista Soldati mentre mi salutava, dandomi il benvenuto, ha tirato fuori dalla tasca esibendola una scatoletta di metallo dove teneva il necessario per ritoccarsi i baffi.
Grande amico di Soldati, come entrambi tenevano a far sapere, era Giorgio Bassani. Aggiungerò subito che i rapporti con l’autore delle Cinque storie ferraresi non erano dei più lineari. Sollecitavano riflessioni, interrogativi, slanci e contro-slanci degni d’un romanzo per signorine. Eri costretto a chiederti a più riprese quale fosse il suo vero pensiero su di te. Influenzato all’epoca da Enzo Siciliano e anche un po’ da quello straordinario letterato perché poeta e straordinario poeta perché letterato ineffabile che era Attilio Bertolucci, mi trovavo talvolta a cena con Giorgio in tavolate dove avevi l’impressione che i libri non letti e i musei non visitati potessero d’improvviso puntare l’indice contro di te. Intimidito, parlando il meno possibile, prendevo così mentalmente appunti. La ragione? All’epoca si parlava molto delle pagine controllatissime di Bassani, del suo modo di costruire i periodi e persino di mettere le virgole, tanto che dentro di me accostavo Giorgio a un Flaubert redivivo. Poi, nei giorni successivi a quelle serate, tormentavo Siciliano imbarcandomi in ingenui confronti telefonici diviso tra i perfezionismi di Bassani e la perfezione d’un grande narratore oggi imperdonabilmente trascurato quale Tommaso Landolfi. Quel Landolfi che Moravia descrive, in una pagina di questo suo libro in cui non esita di tanto in tanto a prendersi in giro, dandy tra i dandy mentre seduto alle «Giubbe rosse fa oscillare nervosamente la punta del piede» nell’ascoltare Montale o Saba o qualche altro nume letterario.
Rimanendo a Bassani mi accadde di domandare a Moravia, che sapevo estimatore convinto degli Occhiali d’oro, quale fosse il suo sentimento nei confronti di questo autore che divideva l’opinione pubblica sollevando frequenti discussioni. Moravia mi rispose «Io gli sono amico. Lui a volte sì e a volte no». È una considerazione amara che torna nell’autobiografia.«Provavo sentimenti di amicizia per lui, lui non sempre per me. Mi fece anche degli attacchi imprevisti e imprevedibili. Una volta in un giornale scrisse che non ero degno di rappresentare la letteratura italiana».
Il Journal dei de Goncourt, monumento insostituibile di un’epoca, lo testimonia: la società letteraria non esisterebbe se gli artisti non si corteggiassero fingendo di osteggiarsi o non si osteggiassero fingendo di ammirarsi. Senz’altro spigoloso, anche se intervallato da più o meno brevi tregue, fu il rapporto che Alberto ebbe con Montale. Tutto nacque quando il poeta, prossimo vincitore del Nobel, definì Moravia autore degli Indifferenti un secondo Mascagni. Qualcuno insomma che doveva il suo successo a una sola opera, nel caso del musicista siciliano la Cavalleria rusticana. Il ritratto che Alberto fa in risposta al poeta degli Ossi di seppia non lascia dubbi sul suo essersi sentito offeso. Montale, scrive infatti, «sembrava un monaco umanista e sensuale, con i capelli biondicci e folti che crescevano fino in mezzo alla fronte, gli occhi cerulei, dolci e un po’ deliranti e una grossa bocca dalle labbra ghiotte che ricadevano su un mento con la fossetta. Aveva qualcosa di monacale ma non di ascetico, appunto come un frate raffinato e libresco».
Moravia, mi pare giusto aggiungere, era un ammiratore dichiarato del pittore Mino Maccari, riconoscendogli le doti d’un caricaturista straordinario. Non sorprende perciò che si rifaccia in qualche modo proprio a lui e al suo stile nel ritratto più ironico che crudele che ha voluto lasciarci di Montale. A questo proposito non va dimenticato che Montale sapeva a sua volta essere cattivo quando voleva con grande eleganza e indiscutibile talento.