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 2018  agosto 06 Lunedì calendario

Roberto Mancini raccontato dalla mamma Marianna

Roberto da piccolo? «Molto bello e molto discolo: era iperattivo, trovava sempre qualcosa da fare e un modo per farsi male». Per esempio, intorno ai cinque-sei anni. «Si stava rincorrendo intorno al tavolo della cucina con la sorella Stefania, più piccola di diciotto mesi. A un certo punto cade e si rompe il polso: sessanta giorni di gesso, perché i primi trenta non lo avevano rimesso a posto». E non è finita. «Poco dopo ne combina un’altra. Io ero a letto con la febbre e gli avevo sequestrato la bicicletta perché correva come un pazzo. Suo padre va in giardino a fare dei lavori e Roberto lo segue, prende una bici senza freni abbandonata su un muretto lì fuori, la inforca, va sulla strada e finisce dritto dritto nella bottega di un sarto, dove si taglia con un perno: gli mettono i punti sotto il naso e il mento. Che dovevo fargli? Mi ha chiesto subito scusa...». Neanche dopo si è dato una calmata. «Mentre una signora stava stendendo i panni all’aperto, lui prese dal cartone del detersivo una manciata di polvere e la sparse sul prato. La donna fece finta di rincorrerlo per spaventarlo, lui scappò, cadde e si riaprì tutti i punti...».
Marianna Puolo, 72 anni, energica e amorevole mamma del Mancio, in uno studio della villa secentesca di famiglia ristrutturata una decina di anni fa a Jesi, ricorda con orgoglio le marachelle del figlio, al quale perdonava tutto. «Aveva quel sorriso smagliante da monello che ti ammaliava. Come facevi a restare arrabbiata?». E così, neppure quella volta che appena quindicenne rubò la sua Audi nuova e si schiantò contro un albero, riuscì a punirlo. «Eravamo in vacanza a Senigallia. Dico a mio marito: ma guarda quello, ha la macchina uguale alla mia. E lui: non è uguale, è la tua! E vediamo in diretta l’incidente, Roberto che viene fuori terrorizzato, ma al tempo stesso ridendo a crepapelle...».
Il ct della Nazionale di calcio nasceva all’ospedale di Jesi il 27 novembre di 54 anni fa. «Abbiamo rischiato di morire tutti e due, pesava cinque chili e cento: fortuna che un professore bravissimo lo mise subito sotto l’acqua, gli diede delle botte e lui si riprese. È stato il primo maschio dopo la nascita di venticinque femmine, la luna era cambiata proprio quella notte. Ne parlò anche la radio». Roberto è sempre stato un figlio educato e allegro. «Gli bastava un panino con prosciutto per essere felice». Ma dal pallone non lo separavi neanche con la forza. «Si mise a giocare pure il giorno della prima comunione. Appena uscito dalla chiesa si accorse che nel campetto dell’oratorio la sua squadra stava perdendo, allora si tolse la tunica bianca, entrò e segnò». Riempiva la casa con la sua irruenza. «Il letto la mattina? No, mica se lo faceva...».
Mamma Marianna non ha mai smesso di coccolarlo con i suoi manicaretti. «Va matto per i tortellini in brodo: prima li preparavo io, adesso li prendo da una signora bravissima, alla Locanda delle Poste». Altri piatti ai quali il Mancio non sa resistere? «Il tiramisù con la mia correzione: lo faccio con i Pavesini e mentre sbatto i tuorli d’uovo aggiungo un cucchiaio di caffè in polvere, per togliere il senso di grasso del mascarpone. E poi adora i miei cannelloni al forno con la carne, il coniglio arrosto con le patate e il ciambellone».
La professione di infermiera è stata preziosa per arginare tutti i graffi, sbucciature e incidenti domestici del figlio. «Quando ha cominciato a giocare nel Bologna, non prendeva mai una medicina se non gli dicevo che poteva farlo. Questo vuol dire tanto: gli è servito a non mandar giù mai cose strane...». Della straordinaria carriera calcistica del figlio non si è persa quasi nessuna partita. «Con Aldo, mio marito, partivamo in macchina. A Genova, quando i tifosi mi vedevano, dicevano: “C’è la mamma del Mancio, oggi si vince!». La Sampdoria e il Bologna sono le squadre a cui è rimasta più affezionata. «Ma anche da allenatore abbiamo cercato di seguirlo. Quando ha vinto la Premier League con il Manchester City c’eravamo anche noi, in tribuna con il principe (Mansur bin Zayd Al Nahyan, ndr)».
Da chi ha preso di più, tra la mamma e il papà? «Più da me, sicuro. Ma a livello sportivo più dal padre, Aldo: era campione di mezzofondo, sa? Ha vinto tante medaglie. Oggi dirige una scuola calcio di 300 allievi». L’incarico nella Nazionale, ora, la emoziona e la risarcisce di quando Roberto fu rispedito a casa, dagli Stati Uniti, per essere uscito la sera con i compagni più grandi. «Lui era il più piccolo, non sapeva che bisognava chiedere il permesso. Cabrini e gli altri lo invitarono e lui andò. Bearzot non se ne sarebbe mai accorto se qualcuno non avesse fatto la spia... Dopo, Vicini lo convocò ai Mondiali in casa, ma non lo fece mai giocare. Peggio per loro: con Roberto avrebbero vinto».