il Giornale, 6 agosto 2018
Parla il presidente degli architetti italiani: «Macché archistar, qui bisogna ridisegnare le città italiane»
«Le archistar? Per carità, alla gente non stanno simpatiche, sono considerate figure ingombranti, troppo autoreferenziali. E del resto lei provi a dare dell’archistar a uno come Renzo Piano, vedrà come si arrabbia, dice che lui fa al massimo il geometra». Giuseppe Capocchin, padovano, classe 1949, è il presidente degli architetti italiani: «Qualche settimana fa ha abbiamo presentato una ricerca della Makno sulla immagine della nostra professione. Ne siamo usciti abbastanza bene, salvo appunto le stelle, i grandi nomi. Dal nostro punto di vista la loro onnipresenza mediatica ha una controindicazione fondamentale: rischia di far perdere di vista il problema più importante a cui siamo di fronte, noi e tutto il Paese: migliorare la qualità media della progettazione, pensare non a questa o quella opera isolata ma nel loro complesso alle città italiane del futuro».
Al tema delle città Capocchin è affezionato: tra i suoi ultimi lavori c’è il piano strategico della comunità metropolitana di Padova («ci ho messo tre d’anni a mettere d’accordo i comuni di tutta la zona»), e il piano urbanistico operativo di Treviso. Impegni importanti per chi ha esordito in maniera un po’ fuori dall’ordinario: «Ho iniziato a 17 anni, facevo l’operaio, settore nastri trasportatori e reti metalliche. Uscivo dal lavoro e andavo subito a scuola, al corso serale per geometri. Il sabato e la domenica in casa a studiare. Mi sono diplomato e poi a 25 anni mi sono iscritto all’università a Venezia, sempre lavorando».
Da lì in poi l’attività di architetto è diventata passione e professione di famiglia: architetti sono anche i suoi due figli maschi. Il minore, 32 anni, dopo aver fatto esperienza in un paio di grandi studi, è tornato a lavorare in quello del padre, sempre più impegnato nell’attività pubblica. Studiava da architetto anche Barbara, la figlia morta a 22 anni per un incidente a cavallo. Dal 2003, per ricordarla, la Fondazione che porta il suo nome organizza una Biennale e mostre dedicate ai più grandi progettisti in attività.
Architetto, non sarà colpa vostra, ma le città italiane sono sempre più brutte. Come mai?
«Domanda complicata. Diciamo che abbiamo centri storici bellissimi e periferie da dimenticare. E se devo dare una risposta mi verrebbe da citare il fatto che nessuno delle città si occupa davvero. Lei nell’ultima campagna elettorale, ma per la verità anche in quelle precedenti, ha sentito affrontare il tema? Direi di no. Ed è un errore fondamentale perchè si trascura completamente il ruolo che le città hanno nella crescita di un Paese».
E cioè?
«Lo posso sintetizzare in poche parole: le città sono, molto semplicemente, il futuro del mondo, il motore dello sviluppo. Già oggi il 55% della popolazione mondiale vive in aree urbane e ci sono ricerche che indicano con chiarezza quale importanza assumeranno di qui al 2030 o al 2050. A livello europeo sono stati individuati 12 criteri in base ai quali viene scelta ogni anno la capitale verde del Continente: ci sono trasporti e mobilità, ambiente, servizi. È doloroso dirlo ma nessuna città italiana si è mai avvicinata alla vittoria. Non stiamo parlando di un obiettivo solo per appassionati ecologisti. La sostenibilità ambientale si traduce in qualità della vita che a sua volta si traduce in investimenti. Nessuno vuole andare a vivere dove si sta male. Se una città si rimette in moto, arriva anche il lavoro. E l’Europa è piena di esempi di città che si sono riqualificate e sono diventate più ricche: Essen, Amburgo, Nantes, Lubiana. Ecco, per esempio, prenda Lubiana e guardi il cambiamento che ha fatto negli ultimi 10 anni.
Che cosa è cambiato?.
«Nel 2016 è stata dichiarata capitale verde d’Europa, ma fino a qualche tempo fa era caotica e non particolarmente vivibile. Poi si è deciso di chiudere il centro storico e di renderlo a misura d’uomo. Il valore del patrimonio immobiliare è cresciuto e questo ha portato i proprietari a riqualificare le loro proprietà. A Nantes, altra capitale verde, mi spiegavano che avevano nove strade principali che attraversavano il centro. Dopo un lungo braccio di ferro ne hanno chiuse otto. Gli abitanti dell’unica rimasta aperta al traffico indiscriminato si sono messi a festeggiare per lo scampato pericolo. Dopo un anno sono stati loro a chiedere che anche la loro via fosse sottoposta a una forma di tutela».
Qualche cosa si è fatto anche da noi...
«Si, ma come? Prenda l’esempio della Francia, dove pure di errori nel passato ne hanno fatti non pochi. Nel 2003 hanno creato quella che in sigla si chiama Anru, l’Agence nationale pour la Rénovation Urbaine, con la priorità di risanare 600 quartieri periferici, le famose banlieue degradate. Hanno stanziato un budget di 12 miliardi di euro e fissato obiettivi precisi e concreti sulla base dei quali sono stati distribuiti i finanziamenti».
In Italia c’è stata la legge per le periferie.
«Ecco, appunto. In prima battuta sono stati impegnati 500 milioni poi diventati 2,1 miliardi. Per distribuirli si è deciso di dare 18 milioni a tutti capoluoghi, indiscriminatamente, così, a pioggia. Il risultato è che i soldi sono arrivati sia a chi si è limitato a sistemare i marciapiedi e sia a chi ha avviato reali progetti di rigenerazione. E tenga presente che la rigenerazione vera diventa una calamita finanziaria. Le faccio un altro esempio internazionale: Amburgo. Il risanamento della zona portuale è costato 2,4 miliardi di investimento pubblico ma ha portato alla città 8 miliardi di soldi privati. Naturalmente bisogna tenere presente che l’Italia deve fare i conti con le sue specifiche caratteristiche».
Per esempio?
«Diventiamo più vecchi e diminuiamo di numero. In tre anni, tra il 2014 e il 2017, abbiamo perso 310mila abitanti, l’equivalente di una città come Catania. Tra il 2017 e il 2036, se le previsioni saranno rispettate, l’Italia perderà quasi tre milioni di residenti. Come l’intera città di Roma. Siamo meno, siamo più vecchi e dobbiamo fare i conti con una domanda diversa da quella di una volta».
In che cosa è diversa?
«I giovani esprimono per esempio una maggiore esigenza di mobilità. Vogliono, o sono costretti, a cambiare città e lavoro, hanno bisogno di un vero mercato degli affitti. Anche la tradizionale e netta distinzione tra aree industriali e aree residenziali non ha più senso come una volta. Un tempo l’industria era inquinante e andava tenuta lontana. Oggi la caratteristica della città contemporanea, basata su terziario e innovazione, è la cosiddetta mixité, la capacità di far coesistere attività diverse in maniera integrata».
Il settore immobiliare è stato uno di quelli più colpiti dalla crisi. Anzi, sotto molti aspetti non ne è ancora uscito.
«La crisi è stata profonda. E ha segnato anche una cesura culturale. Prima del tonfo l’approccio era quello di una volta, ancorato a schemi di anni ormai lontani. Poi, le difficoltà dell’economia, la perdita di valore degli immobili, tutta quella serie di elementi che abbiamo citato fino ad ora hanno prodotto una diversa consapevolezza: oggi il problema non è più tanto quello di costruire ma quello di rigenerare e riqualificare. Anche se, come al solito, qui in Italia le cose sembrano più difficili che altrove. La proprietà immobiliare, per esempio. Da noi è molto più frazionata che in altri Paesi. Nella Penisola ci sono 11milioni e 900mila immobili residenziali, il 70% sono uni e bifamiliari. All’estero si decide un progetto e bisogna mettere d’accordo poche grande società immobiliari, da noi una miriade di proprietari.
Nella scorsa legislatura si è discusso a lungo su un progetto di legge che scoraggiando il consumo di suolo rendesse più convenienti le opere di riqualificazione.
«Sì, ma in che termini? Sono stato chiamato in audizione al Senato e non stato tenero: ho detto che la legge, che è stata approvata in prima lettura alla Camera, era sbagliata dalle fondamenta».
Che cosa non le piaceva?
«Ascolti che cosa diceva il testo: si stabiliva un tetto al consumo di suolo fissato all’anno 2050. Poi si prevedeva che all’interno di questo tetto le quote di ogni Regione fossero definite da una trattativa condotta nella Conferenza Stato-Regioni e che all’interno di ogni Regione si aprisse poi un confronto tra i comuni per la ripartizione a livello locale. Tutto era bloccato fino a quando l’iter non fosse stato completato. Era la ricetta sicura per la paralisi. E invece la strada giusta è un’altra».
Quale, secondo lei?
«Il contenimento del consumo di suolo non si ottiene con le quote ma piuttosto con gli incentivi. Bisogna fare in modo che riqualificare costi di meno e costruire ex novo costi di più, solo così si ottiene un ribilanciamento. Anche su questo tema però bisogna fare i conti con una realtà scomoda. Il disastro nei conti di molti enti locali».
Che cosa intende?
«I tagli della spesa pubblica hanno aperto dei buchi nelle casse comunali e i tributi concessori sono in molti casi l’ultima risorsa di bilancio. Bisogna incassare gli oneri urbanistici per far quadrare i conti. E più costruisco più incasso. In queste condizioni diventa difficile fare tanti ragionamenti sulla qualità della progettazione».
È quello che avete chiesto al termine del Congresso che avete tenuto a Roma poco più di un mese fa: l’approvazione di una «Legge per l’architettura», che promuova la qualità di ciò che si costruisce, blocchi il consumo di suolo e le espansioni urbanistiche incontrollate.
«Sì, ne abbiamo parlato anche con il ministro della cultura del nuovo governo giallo-verde, Alberto Bonisoli. Si è insediato da poco ma ci è sembrato concreto e realista. Ci ha suggerito di puntare sull’approvazione di una serie di linee guida in modo da raggiungere l’obiettivo prima della fine della legislatura».
Definendo più precisamente anche ruolo e competenze dell’architetto la legge potrebbe dare anche una mano a una categoria come la vostra, che la crisi ha messo in grandi difficoltà. Il suo predecessore qualche tempo fa disse che gli architetti erano i nuovi poveri.
«È vero, per i 155mila architetti italiani gli ultimi anni non sono stati facili. Ma per uscirne dobbiamo offrire e non chiedere: arrivare a un progetto per il Paese, contribuire a creare una cultura della domanda di qualità sarebbe un passo in avanti. Oggi in Italia si vive soprattutto di edilizia povera: io dò l’incarico a chi riesce a districarsi nella giungla di norme che regolano il mondo dell’edilizia. Pago chi mi porta casa il permesso di costruire, il contenuto del permesso passa in seconda fila. Le cose vanno cambiate e bisogna fare prima di tutto uno sforzo culturale: nell’amministrazione pubblica e anche tra noi architetti».
Un tradizionale oggetto di lamentela della sua categoria sono appalti e concorsi...
«Le regole sono in molti casi sbagliate. Per quanto riguarda gli appalti per esempio si privilegiano le dimensioni rispetto alle competenze: per partecipare a determinate gare sono previsti stretti vincoli di fatturato, tagliando fuori molti operatori. Ma sono proprio i concorsi per come vengono fatti in Italia ad essere un pasticcio. Un caso esemplare di cui si parla in questi giorni è quello di un concorso di idee bandito nel 2016 dal Ministero della pubblica istruzione per 51 scuole innovative. Lasciamo perdere i ritardi che hanno segnato tutta la procedura, alla fine hanno partecipato 1238 raggruppamenti professionali. Ma il bello è che trattandosi di un concorso di idee e vista la formulazione del bando, tutti gli studi hanno in pratica lavorato per un pugno di mosche. Secondo il parere dell’Anac anche i vincitori per ottenere l’incarico di progettazione vera e propria dovranno rifare un’altra gara. Riuscire a cambiare regole ed abitudini, in modo da fare i concorsi come si deve sarebbe già un gran risultato».