La Verità, 5 agosto 2018
Parla Milena Gabanelli
«Ho voltato pagina, non torno in Rai»
Anche Milena Gabanelli rallenta per l’estate. Ma, dall’epicentro della sua attività multitasking – due pezzi a settimana per il Corriere della Sera, altrettanti video per il sito di Dataroom, le ospitate su La7 – può rispondere alle domande della Verità e riflettere sulla sua nuova vita fuori dalla Rai.
Poco più di sei mesi di Dataroom: facciamo un bilancio? Più riscontri cartacei o dai video?
«Sono riscontri diversi perché seguono strade differenti: quelli su cartaceo più tradizionali e istituzionali (magari ti telefona un ministro), i video hanno un pubblico più giovane e non si bruciano nella giornata di pubblicazione. Ce ne sono alcuni che diventano virali dopo un mese perché vengono intercettati dalle infinite vie del Web. I numeri in sei mesi? Un centinaio di video, accompagnati da altrettanti articoli di approfondimento».
Il video con più visualizzazioni?
«La storia dell’acquisto del Milan e dei soldi che il cinese non aveva. La domanda di chi fossero quei 700 milioni è sempre aperta e appetitosa».
Altri riscontri?
«Si sta alimentando il dialogo con quel mondo che si informa solo nelle piazze virtuali. Un’utenza molto difficile, diffidente, piena di pregiudizi e poco disponibile al confronto, anche perché quasi nessuno ha voglia di esporre le proprie viscere a chi sembra non ascoltarti nemmeno. Ti chiedi: ma perché devo replicare a uno che dopo averti smontato il pezzo con considerazioni basate sul nulla, ti manda “a darla via per strada”? Bisogna essere un po’ masochisti, no? Però il verminaio può solo proliferare se non si fa la fatica di entrarci e confrontarsi. Rispetto a qualche mese fa vedo che è un po’ cambiato il tono; sanno che rispondo e quindi interloquiscono in modo meno violento e io preferisco dialogare con chi non la pensa come me».
Da quante persone è composta la redazione di Dataroom?
«Da due giornalisti e due grafici, però si interagisce anche con tutti i colleghi del Corriere».
In base a quali criteri sceglie gli argomenti?
«Scelgo temi che possono essere rappresentati attraverso l’oggettività dei numeri, in modo da comprenderne le ricadute e le possibili soluzioni. Faccio un esempio: di quanto aumentano ogni anno gli acquisti online? Parallelamente di quanto è aumentato il traffico pesante in città per le consegne della merce acquistata su internet? La maggior parte di questi furgoni sono classe euro 3. In conclusione: ogni volta che acquisti online un prodotto venduto anche nel negozio sotto casa, contribuisci ad aumentare l’inquinamento».
Anche questo è giornalismo di servizio.
«Il giornalismo è per sua natura di servizio, altrimenti è solo servo».
Da servizio pubblico, sarebbe stato perfetto in Rai.
«Sarebbe, ma così non è stato».
Parlando di Rai, qualche giorno prima che fossero nominati i consiglieri di amministrazione, ha scritto un pezzo pieno di numeri in cui ha sottolineato il ritardo dell’informazione online: un vuoto lasciato dal rifiuto dell’ad Mario Orfeo di accogliere il suo progetto di Rai.it.
«Il rifiuto fu del Consiglio d’amministrazione prima dell’arrivo di Orfeo, che lo subordinò alla riforma complessiva del piano news. E quando lo scorso giugno arrivò Orfeo ha preferito non porre più la questione. Alla fine non hanno fatto né la riforma né il sito di news online. Credo sia l’unica tv pubblica al mondo a non averlo».
Quel pezzo poteva essere letto come una ripicca o come una candidatura a futura memoria: né l’uno né l’altro?
«Ci vogliono molta malizia e poca memoria per pensare questo. Quell’articolo era solo l’ultimo di una lunga serie. Avevo dedicato puntate di Report alla modalità di reclutamento del Cda Rai (la prima nel 2007 e l’ultima nel 2014), esponendomi al rischio che non venisse rinnovato il mio contratto. L’ho fatto perché non si può rompere le scatole a mezzo mondo e non guardare mai nel piatto dove mangi. Perché non dovrei farlo adesso che non ci mangio più?».
In Rai è stata candidata a tutto: presidente, ad, direttore del Tg1. Invece?
«A me nessuno ha mai chiesto nulla. A scanso di equivoci: ho un impegno con il Corriere della sera e intendo onorarlo».
Molte di queste indiscrezioni nascono dal suo presunto rapporto con ambienti grillini. Cosa c’è di vero?
«Non ho mai avuto rapporti con nessun ambiente politico; sono invece stata consultata in diverse occasioni, ora come in passato, su temi di cui ho qualche competenza. Poi nessuno mi ascolta, ma questa è un’altra storia».
Conosce Marcello Foa e il suo lavoro sulla manipolazione dell’informazione? Che cosa pensa delle polemiche sul suo conto?
«L’ho incontrato in occasione di un paio di miei interventi all’Università del Ticino, dove lui mi aveva invitata. Penso che il suo lavoro sugli spin doctor sia ottimo, mentre non condivido nulla delle sue ultime esternazioni».
Vediamo protagonisti di stagioni di lottizzazioni appena concluse tagliare giudizi spietati sui nuovi candidati. Che cosa ne pensa?
«Mi sembra il bue che dà del cornuto all’asino. Il timore non è la lottizzazione in sé, che c’è sempre stata, tant’è che la Rai lottizzata ha prodotto grandi cose quando i partiti indicavano dirigenti con competenze dimostrate. La deriva della politica negli anni invece ha umiliato le professionalità, dentro e fuori dalla Rai».
Per allontanare la politica dalla Rai bisogna…?
«Cambiare la legge, magari ispirandosi al modello inglese del trust per la scelta della governance».
Se ci si affida alla buona volontà dei partiti che hanno vinto le elezioni quanto è difficile che i soliti sistemi cambino?
«Anche quelli che non hanno vinto insistono: il Pd ha ri-piazzato Rita Borioni, già consigliera nel precedente Cda. In virtù di quale merito?».
Quando ha lasciato la conduzione di Report voleva stare fuori dal video o solo cedere il timone?
«Dopo vent’anni la ritenevo un’esperienza conclusa. Report era nato da un modello produttivo molto economico e da un linguaggio innovativo, il videogiornalismo. Quello che mi interessa ora è riprendere la sperimentazione di un linguaggio più adatto ai mezzi dove si formano e informano le nuove generazioni sfruttando l’esperienza maturata».
Qualche mese dopo era pronta a tornare per una striscia dopo il Tg1.
«La striscia di 3 minuti di datajournalism l’ho proposta a Orfeo lo scorso ottobre, quando ho capito che il sito di news, al quale avevo lavorato da gennaio, non si sarebbe fatto. Orfeo non l’ha ritenuta di interesse, mi sono dimessa e Dataroom l’ho realizzato per il Corriere».
Quanto le manca la Rai?
«La mia storia professionale è nata e cresciuta lì. La Rai è stata il luogo dei miei ideali, un pezzo di famiglia, ma ho voltato pagina e i miei pensieri oggi sono da un’altra parte».
Alla presentazione dei palinsesti di La7 Urbano Cairo e Andrea Salerno hanno detto di aver provato a convincerla a tornare in tv. Per che cosa nello specifico e cosa manca?
«Mi hanno chiesto di preparare qualche prima serata. Quello che manca è il tempo per fare questo e quello. E io preferisco fare Dataroom».
Che opinione si è fatta dell’idea di Enrico Mentana di un giornale digitale?
«Tutto il bene possibile. Si parla tanto di dare opportunità ai giovani, lui lo fa mettendoci dei soldi suoi. Mi auguro che lo facciano anche altri, nei settori di loro competenza».
Che cosa pensa dell’idea di Davide Casaleggio per il quale in futuro la democrazia rappresentativa del Parlamento potrà essere superata dalla democrazia diretta della Rete? Non è una previsione super ottimistica?
«L’idea mi pare fosse già del padre Gianroberto. Non sono abbastanza visionaria da immaginare quanto il progresso tecnologico modificherà la democrazia rappresentativa. C’è un tema però: la libera formazione delle opinioni passa da una corretta informazione. Raccogliere notizie richiede tempo, analisi e verifiche. Oggi si pretende di accedere a ogni informazione via Web gratuitamente, il che significa che chi produce quelle informazioni, lo fa a tempo perso perché per mantenersi fa un altro mestiere, oppure ruba il lavoro degli altri. Non è una bella prospettiva, visto che in qualche lustro il Web sarà il mezzo utilizzato da tutta la popolazione. Perciò, prima di parlare di democrazia diretta della Rete, vorrei poter avere gli strumenti per distinguere cosa c’è dentro la Rete».
I nuovi poteri forti sono i grandi marchi della new economy tipo Apple, Amazon, Facebook?
«Sono poteri opachi, depositari di miliardi di informazioni gestite da algoritmi di cui non sappiamo nulla. Chiunque, da qualunque parte del mondo può interferire, senza filtri, negli orientamenti politici di un Paese alla velocità della luce. E quando te ne accorgi è sempre tardi».
Con la robotizzazione dell’economia auspicata dai big dell’hi tech saremo sempre meno produttori. È malizioso pensare che il reddito di cittadinanza serva a farci restare ugualmente consumatori, possibilmente senza troppa capacità critica?
«Ma cosa me ne faccio della capacità critica se a fine mese ritiro uno stipendio senza dover produrre alcunché? Sarebbe un mondo fantastico, ma più che malizia ci vuole molta fantasia. Credo che la robotizzazione dell’economia sia un tema molto serio e che andrà governato con ben altro che il reddito di cittadinanza».
Ha un’idea per neutralizzare fake news e haters?
«Formazione nelle scuole, a partire dalle elementari. Bisogna insegnare a ragazzi e ragazze i processi di verifica prima di credere ad una notizia e condividerla».
Quali sono le sue letture quotidiane?
«I quotidiani e un romanzo che mi prende molto prima di andare a dormire. Ho appena finito l’ultimo di Maurizio De Giovanni e mi sento già un po’ sola».
Che cosa guarda in tv?
«Il tg e quello che in quel momento mi cattura».
Qualche preferenza?
«Ho un debole per i programmi musicali, vado a cercarli ovunque. La musica mi dà felicità e sottili malinconie».
Che cosa le dà speranza, oggi?
«Lo stato di avanzamento del declino. Domani sarà per forza un giorno migliore. Sono una credente, sa?».