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 2018  agosto 05 Domenica calendario

Dick Fosbury in volo nel futuro

A volte le rivoluzioni somigliano a dei tonfi. Succede. Chi ha visto Dick Fosbury volare sopra l’oro del salto in alto ai Giochi del 1968 lo ricorda così: «Un uomo che cade sulla schiena». Nonostante il successo immediato, nella gara più importante, ci è voluta la storia, la prospettiva del tempo, a definire il cambio epocale. Lì per lì, quella traiettoria che pareva contro natura ha più che altro spiazzato. Quel che è naturale viene definito strano quando manca l’abitudine, il nuovo spaventa, il corto circuito tra la routine e lo strappo che migliora la vita dà la scossa: trova sempre resistenza. Nell’anno che ha stravolto il mondo, il 1968, Fosbury non ha solo spostato il salto in un’altra era, ha dimostrato, a quota 2 metri e 24, che bisogna osare, insistere, seguire l’istinto e trovare la propria strada. Anche se non ci è mai passato nessuno prima. Anche quando ti dicono che è chiusa.Con il «Fosbury Flop» che oggi sta sul dizionario, si va molto oltre la tecnica all’avanguardia. Gli atleti sono guardati come miti non perché sono campioni, perché vincono o diventano famosi: restano e condizionano perché spostano i limiti umani. Fascino assoluto, quanto di più vicino agli dèi. Fino al 20 ottobre di 50 anni fa si saltava a pancia in giù. In sequenza: nel 1886 si cerca di oltrepassare l’asticella a forbice, una goffa sgambata ad altezza ridotta, nel 1912 arriva il primo prototipo del salto ventrale, detto «Western roll»: sa di wrap all’avocado, ma in realtà è il tentativo di sfidare la gravità staccando con la gamba interna, quella vicina all’ostacolo, e scavalcando con l’altra. Lo stile si perfeziona nel 1936, cambia la rincorsa, aumenta la spinta, si sale fino al sublime Valerji Brumel che porta il record a 2,28 e anche un’intera scuola durata decenni al capolinea. Con lui si raggiunge la perfezione e si vede la fine: non immediata.Fosbury compare sulla scena come «il più pigro saltatore che si sia mai visto», etichetta che gli appiccica un giornale dell’Oregon, dove è nato, quando lo vede tentare la spinta di schiena sulla pedana del college.
Dick non ha nulla del rivoluzionario, gliene manca il fascino, persino il fisico. Un lungagnone con la pelle chiarissima e il caschetto corto, destinato al basket dove resta sempre in panchina. Fa gioco raccontarlo come un adolescente annoiato che fallisce in tutto e si riscatta all’improvviso con un’invenzione, solo che non esistono scorciatoie. Non è mai tanto facile. A Fosbury piace l’atletica da subito, solo che quello sport lo respinge. Inciampa nel salto ventrale tanto da detestarlo. Ci litiga, un giorno si deprime e l’altro si intestardisce e l’illuminazione non arriva in una faticosa sessione di prova o in una notte di sogni illuminati. Serve il progresso, tutto cambia quando nel suo college arrivano i materassi in gommapiuma e lui può finalmente cadere. Ovviamente chiunque lo guardi pensa sia uno svitato. Nessuno crede alla rivoluzione e in realtà prima di quel 20 ottobre la vedono in pochi. L’America è in piena guerra del Vietnam, marcia con i capelli lunghi e l’anima pesante, non ha tempo per notare un ragazzo così ordinario e strampalato insieme. Uno che salta tutto pettinato, con la riga nei capelli e le scarpe spaiate, una bianca e una blu. È controcorrente per l’istituzione, è banale per gli hippie che traslocano in strada e occupano i notiziari: in pratica non interessa a nessuno. E in una sera di inizio autunno, a Città del Messico, si prende l’attenzione del mondo intero.
Prima di spingere pensa. Quattro minuti e mezzo, un’eternità di silenzio e soffi sulle mani, con l’intero stadio che si mette in punta di piedi per capire che succede. «L’americano non parte». Invece è partito, si sta ripetendo nella testa «posso riuscirci, posso riuscirci, posso riuscirci», il cronometro gira e i suoi pensieri pure. Corre, conta le falcate, si gira mentre stacca, lascia la pista e i dubbi e si lancia di schiena oltre l’asticella. «La mia cosa», come la chiamerà più tardi, senza sapere come definire la storia.
Ci provano gli altri, con nomi rancorosi: «l’azzardo» è il commento di diversi tecnici che da subito abbinano l’idea di pericolo all’impresa. «Scriteriato», «cattivo esempio», «non imitatelo». I giudizi sono in maggioranza questi, l’equivalente dei tweet sputati dagli odiatori contemporanei, detestatori di professione. C’è anche chi è estasiato dalla leggerezza e invece di condannare esalta, però resta lo sbalordimento collettivo e la sensazione che, comunque sia, «la mia cosa» resterà unica. La caratteristica di Mr Fosbury che da anonimo atleta di fila passa a nome del momento. Battezza un salto e scardina il luogo comune.
Oltre al coraggio ha una visione, a 21 anni, dopo una vittoria strabiliante, un oro preso al contrario, è così lucido da dire: «Non so se questo salto avrà seguito, ma suggerisco a ogni ragazzino che non ha risultati con l’altro stile di provarci». E nel 1968 ogni ragazzino del pianeta è pronto ad assaggiare la novità, a contestare la tradizione. Fosbury è un inno alla creatività e uno sponsor per chi vuole uscire dagli schemi, abbandonare gli insegnamenti e costruire un percorso inedito. Un gioco di equilibrio che infatti si esprime in volo, però non senza studio. Fosbury ragionava già da ingegnere, mestiere che poi ha davvero fatto, quando è planato a terra. Ha messo insieme ogni dettaglio, valutato le caratteristiche del suo corpo e la forza che gli serviva. È saltato nel futuro e ha scioccato lo sport che, suonato, ha prima rifiutato il progresso e poi imitato in massa. Dalle Olimpiadi successive ogni trionfo è arrivato con il nome Fosbury sopra. 
Oggi si salta alla Fosbury e si vive alla Fosbury, con ragazzini che immaginano di mettere in rete l’università e tirano fuori Facebook da una chat, con una generazione che sa di doversi inventare un lavoro, di essere quasi obbligata a girarsi dall’altra parte e trovare la tempra per lasciarsi cadere. Serve un buon materasso e soprattutto almeno 4 minuti e mezzo per pensare, calcolare, immaginare, prevedere. L’istinto è necessario, ma da solo non cambia. Non pesa. Non resta. Fosbury invece sì e oggi, a 71 anni, ha i capelli lunghi ed è una delle persone più realizzate che esistano.