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 2018  agosto 05 Domenica calendario

In fondo a sinistra

Chi riesce a seguire le cronache sulle mosse di quel che resta del centrosinistra, e a rimanere sveglio, non può non domandarsi: ma questi signori l’hanno capito perché hanno perso le elezioni? A cinque mesi dalla disfatta del 4 marzo, la risposta è no. Anzi, l’impressione è che non si siano neppure posti la domanda. Continuano a comportarsi come dinanzi non a una catastrofe epocale, ma a un incidente di percorso, a un’afflizioncella passeggera: aspettano fischiettando che passi la nuttata, o il cadavere del nemico giallo-verde, che peraltro non fanno nulla per capire chi sia e perché continui a guadagnare consensi. Un premier semisconosciuto come Conte, stando ai sondaggi, gode del 69% di popolarità, di poco superiore a quella del suo governo e dei dioscuri Di Maio e Salvini. Eppure la maggioranza Frankenstein nata due mesi fa passa gran parte del suo tempo a litigare, a commettere errori puerili e gaffe plateali, ad annunciare cose che non potrà mai fare, a smentire le voci dal sen fuggite a questo o quel ministro, in una cacofonia incoerente e pasticciona che dovrebbe gonfiare le vele delle opposizioni. E invece porta altro fieno in cascina ai governativi. Possibile che a sinistra, fra una maglietta rossa e un appello antifascista, nessuno capisca quel che sta accadendo?
Eppure è tutto molto chiaro: il ricordo dei disastrosi governi precedenti è talmente vicino, vivido, incombente che nessun errore dei nuovi arrivati può suscitare un rimpianto per i partiti sconfitti alle elezioni. Ci si accontenta che i nuovi arrivati facciano ogni tanto il contrario dei vecchi: qualche freno al precariato, qualche nomina per merito e non per tessera (dall’ad Rai ai nuovi vertici Fs), lo stop all’ultima svuotacarceri e al bavaglio sulle intercettazioni, la rimessa in discussione di grandi opere assurde come il Tav Torino-Lione. Anche perché né il Pd, né Leu (o come diavolo si chiama ora) né tantomeno FI fanno assolutamente nulla per distaccarsi da quel passato e poter dire agli italiani: “Ora siamo un’altra cosa, voltiamo pagina e ripartiamo da zero”. FI non può per una dannazione genetica: è nata con B. e morirà con B. Ma il Pd e la sinistra non dovrebbero avere problemi a trovare nuovi leader: oltretutto ci sono abituati, avendone cambiati una trentina in vent’anni. Però un conto sono i nuovi leader, un altro sono i leader nuovi. Gente, cioè, capace di parlare un linguaggio diverso, portare contenuti diversi e raggiungere elettori diversi: perduti e mai avuti. Finora, invece, lo scouting pidino si è concentrato su leader nuovi, o seminuovi, o di seconda mano, o di seconda fila.
Dirigenti che stavano al governo e vorrebbero dirigere il partito, come se il partito non avesse perso proprio per i disastri fatti al governo. Martina e Gentiloni sono brave persone, ma chi li ha mai sentiti prendere le distanze da Renzi su questioni sostanziali come lavoro, povertà, precariato, nomine, casta, corruzione, tasse? Le ultime cartine al tornasole sono due casi all’apparenza minori, almeno per l’impatto sui conti pubblici (non sull’immaginario collettivo): i vitalizi e l’Air Force Renzi (gemello dei Rolex d’Arabia). Per farla finita con i privilegi pensionistici dei parlamentari bastava – come scrisse il Fatto due anni fa in un appello con centinaia di migliaia di firme – una delibera degli uffici di presidenza di Camera e Senato. I 5Stelle, appena Fico s’è seduto a Palazzo Madama, hanno subito provveduto, trascinandosi dietro una Lega riottosa. La casta confidava nella rivincita al Senato grazie alla santa patrona Maria Elisabetta Casellati Alberti Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare. Che ha chiesto pareri a tutti nella speranza che qualcuno le rispondesse che no, tagliare i vitalizi non si può. Invece persino il Consiglio di Stato ha detto che sì, si può. Così ora anche il Senato sarà costretto a imitare la Camera. E chi se ne gioverà? Il M5S.
Sarebbe bastato che un anno fa il Pd facesse altrettanto, anziché presentare la legge Richetti e poi bocciarla, per poter vantare almeno quel successo. Ora, per cancellare quel pessimo ricordo, non basta piazzare Martina, o Gentiloni, o Calenda al posto di Renzi: ci vuole qualcuno che negli ultimi anni facesse altro. L’Air Force Renzi, monumento supremo al superego provincialotto del capo, fu svelato dal Fatto due anni fa: si sapeva fin da subito che era una boiata pazzesca. Ora che il nuovo governo disdice il contratto-capestro Alitalia-Etihad da 150 milioni (e per il leasing, mica per l’acquisto, che sarebbe costato meno; e per fortuna ci siamo risparmiati i 15 o 16 che sarebbe costato il nuovo arredamento sognato dal megalomane di Rignano), nessun pretendente al trono del Nazareno può dire alcunché. Erano tutti lì attorno a Renzi a fischiettare e a parlar d’altro, oppure a salire a bordo (da Gentiloni a Scalfarotto). Casi come questo ne verranno fuori molti altri, ora che i vincoli di solidarietà-omertà si allentano dopo l’uscita del Pd dalle stanze dei bottoni. Qualcuno lo svelerà la nuova maggioranza, aprendo i cassetti e gli armadi. Qualcuno altro magari lo scopriranno le procure. È così difficile capire che il Pd può avere un futuro solo facendo subito tabula rasa del passato e affidandosi a qualcuno che non c’era? Alla festa della Versiliana (30 agosto-2 settembre), abbiamo invitato alcuni esponenti della sinistra che rispondono all’identikit: amministratori di lungo corso, ma estranei alla stagione renziana, come Zingaretti; e giovani molto meno noti che meriterebbero la ribalta nazionale per essere messi alla prova. Se fossero già stati in pista dopo il 4 marzo, avrebbero evitato il capolavoro di un partito che si dice di sinistra e prima spinge i 5Stelle tra le braccia di Salvini, poi comincia a strillare al governo fascista.