Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2018
Stradivari e l’ossessione per un suono perfetto
Alla fine di marzo del 2014 era messa all’asta da Sotheby’s – stima di 27 milioni di sterline, allora circa 30,4 milioni di euro – una viola costruita da Antonio Stradivari. David Aaron Carpenter, violista che suonò due volte lo strumento in questione, a Parigi e a New York, prima che si battesse l’asta, dichiarò: «È in condizioni incredibilmente buone». Non aggiungiamo altri esempi, ormai avvolti dal mito, giacché in tale vicenda è riassunta la storia dell’impresa del liutaio cremonese.
Un’impresa nata in una bottega. Come tante altre della storia italiana. Leonardo cominciò in quella del Verrocchio, Raffaello si recò dal Perugino, Stradivari imparò presso un altro liutaio, Nicola Amati. La sua biografia, quella non fantasiosa, sta in poche righe. Non sappiamo esattamente quando nacque (l’atto, ammesso che esista, non si è mai trovato) e le ipotesi sostengono o il 1644 o un periodo tra la fine del 1648 e l’inizio dell’anno successivo. La prima ha più probabilità di essere vera, giacché dal 1732 in poi Stradivari, nelle etichette che incollava ai violini, usava indicare anche la sua età. E questo sostenne Simone Ferdinando Sacconi, la figura più prestigiosa della liuteria del XX secolo e autore di I “segreti” di Stradivari (Libreria del Convegno, Cremona 1972), in cui descrive il “metodo” che il sommo artigiano seguiva.
Purtroppo è impossibile anche elencare i molteplici aspetti che caratterizzarono il lavoro di Stradivari. Oltre i segreti pratici di costruzione, resta aperta la questione di come componesse la vernice utilizzata. Sacconi, che ha restaurato e studiato attentamente molti suoi strumenti, ricorda che era dotato di notevoli capacità manuali; in pratica non aveva eguali nell’arte dell’intaglio e dell’intarsio. Poi riconosceva il legno come nessun altro, quasi potesse analizzare le caratteristiche del materiale guardando una pianta o toccandola. Egli ricavava parte del materiale delle sue creazioni da un particolare abete rosso, che cresceva in una valle del Trentino.
Molti liutai intraprendevano viaggi da Cremona alla Val di Fiemme, con l’intenzione di selezionare attentamente gli alberi: nacquero in tal modo i cosiddetti abeti di risonanza. Se si volesse lasciare spazio a un pizzico di leggenda, potremmo immaginare Stradivari aggirarsi nella Foresta di Paneveggio a cercare l’abete rosso più adatto. Una volta trovato, l’albero era abbattuto in fase di luna calante e poi trasportato a Cremona. Si dice che il miracolo vada cercato nella presenza in questo legno di dotti linfatici stretti e lunghi, che dovrebbero trasmettere i suoni come canne di un organo. Forse però la caratteristica unica va cercata nelle condizioni di crescita di tali piante. Di certo esse erano note anche fuori della cerchia dei liutai: quando i milanesi chiesero a Maria Teresa d’Austria permesso e privilegio per edificare la Scala, l’imperatrice donò a Milano alcuni abeti secolari delle tenute absburgiche del Trentino. Servirono per la volta del teatro, il quale acquisì qualità sonore come se fosse stato un gigantesco violino; caratteristiche che furono cancellate e non ritornarono più dopo i bombardamenti dell’agosto 1943, quando la Scala fu distrutta. Rossini, Verdi, Bellini, Donizetti, lo stesso Toscanini (che mentì quando visitò il teatro ricostruito, e dopo aver battuto le mani disse: «È la stessa di prima») furono testimoni di quelle antiche possibilità sonore.
La vernice fa ancora discutere. Taluni la pongono in relazione addirittura al suono. Sacconi, però, sostenne che l’influenza diretta non la esercita questa pellicola ma la preparazione del legno. Andrea Mosconi, che è stato uno dei conservatori del museo dei violini cremonesi e ha scritto su Stradivari per la vasta opera Deumm (Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti), diretta da Alberto Basso (nel VII volume, uscito per la Utet nel 1988), ha notato sulla vernice: «Il composto di silicato di potassio e calcio, con il quale si effettua la preparazione, ha la capacità di eguagliare il legno attraverso un maggior assorbimento delle parti tenere rispetto a quelle dure, e ha così effetti benefici sulla produzione del suono. Come effetti collaterali si ha l’impermeabilizzazione e l’isolamento del legno dalla vernice colorata in modo da non comprometterne la trasparenza». A queste considerazioni se ne possono aggiungere altre, derivate da studi dell’Università di Cambridge o da quanto hanno rilevato scienziati della Texas A&M University, College Station, diretti da Joseph Nagyvary; anzi questi ultimi hanno individuato nella vernice cristalli minerali submicroscopici. Qui rischiamo di scrivere un trattato di chimica e non dobbiamo dimenticare che Stradivari faceva tutto con la pratica, seguendo tradizioni di bottega.
Si torna al legno, dunque. Possiamo aggiungere che il grande liutaio utilizzava l’acero dei Balcani nella realizzazione del fondo, delle fasce e del manico; l’abete rosso, invece, per la tavola. Applicando un po’ di filologia, ci si trova davanti a ostacoli notevoli. Basterebbe ricordare che Stradivari bagnava nel Po i suoi legni per lavorarli, prima di farli essiccare. L’acqua allora aveva caratteristiche ben diverse dall’attuale e l’inquinamento, con l’acidità dell’aria, erano termini sconosciuti. Meglio dunque ritornare nella bottega di piazza San Domenico (oggi piazza Roma), acquistata da “Antonio S.” nel 1680, dove il liutaio lavorò sino alla morte, avvenuta il 18 dicembre 1737. Conviene immaginarsi quell’uomo che a opera finita metteva il cartiglio con la scritta “Antonius Stradivarius Cremonensis /Faciebat Anno...” e ricordare che tutti i segreti erano lì, tra quelle quattro mura del suo laboratorio, dove si realizzò un miracolo italiano.
Stime recenti sostengono che Stradivari abbia costruito 1.116 strumenti, dei quali 960 erano violini. Si calcola che circa 650 “macchine da suono” (violini, viole, violoncelli, chitarre, arpe) siano sopravvissute sino a oggi. Tra esse restano circa 450 violini. Un altro aspetto fondamentale dei suoi strumenti: si rivelano nel tempo. Un violino di Stradivari cominciava a dare il meglio di sé mezzo secolo, e anche più, dopo la sua costruzione. Poi, dipende da chi l’ha suonato. Il legno è materia viva e acquisisce le caratteristiche dell’esecuzione. Da qui si spiega perché un certo strumento, utilizzato da un grande musicista, abbia migliori caratteristiche di un altro. Così sostengono gli interpreti, a cominciare da Paganini; e da tali unicità nascono i valori economici.
Per finire, un contemporaneo di Stradivari, che ne sintetizza involontariamente l’operato. Si tratta di Lorenzo Magalotti, scienziato e letterato, diplomatico al servizio del granduca di Toscana, che potrebbe diventare uno sconosciuto alle nostre scuole se si attuasse ancora una riforma dell’istruzione. Lasciò una riflessione nelle sue Lettere contro l’ateismo: «La natura è una grossolana maestra di delizie, che non intende il buon gusto e che non raffina in sulla delicatezza; e per far qualcosa di buono vuol essere arte, vuol essere industria».