Perché ha amato così tanto Emily Dickinson?
«Ogni volta che l’ho letta ha saputo rinnovare la promessa che la sua parola scritta conteneva. Una donna sempre in bilico tra il desiderio di sparire e la volontà di esistere. L’ho amata e l’amo per tutte quelle ragioni che me l’hanno resa indispensabile».
Ha mai pensato che gli scrittori che ci scegliamo sono quelli a cui vorremmo somigliare?
«Ci illudiamo sempre di essere qualcun altro o di non esserlo più nel momento in cui mettiamo alla prova la nostra vita. Avrei voluto essere cosa? Emily Dickinson? Anna Achmatova? Elizabeth Bishop? Toni Morrison? Una parte di loro vive in me: nella scrittura o nella memoria che è nell’aria, o in qualche vecchio quaderno dove annotavo qualche frase. " Ogni storia", ha scritto Sujata Bhatt, "è un racconto spezzato. Scegli una storia e guarda dove ti porta". Mi piaceva fin da bambina prendere il filo di una storia e tirarlo come fosse le ali di un aquilone».
Com’era da bambina?
«A Como, dove sono nata, ho avuto un’infanzia felice. Vedevo il lago e sognavo il mare. Sono stata un’eccellente nuotatrice. Mio padre da amante della montagna portava me e mia sorella a sciare».
Che mestiere faceva?
«Fu un industriale della seta. Volontario alla prima guerra mondiale, si mobilitò anche per la seconda. Guardavo stupita al suo patriottismo che sconfinava nel disinteresse a volte per la famiglia. I nostri rapporti per lungo tempo furono di rivalità accesa. Avrebbe preferito un figlio maschio. Solo in tarda età, quando insegnavo all’università di Catania, mi venne a trovare e colsi per la prima volta nelle sue parole un certo orgoglio per la figlia che non avrebbe mai voluto».
Si è sentita rifiutata?
«Questo mai. La sua delusione è stata per me una risorsa, un desiderio di farcela a onta dei suoi pregiudizi. Divenni presto autonoma. Studiai perlopiù a Milano laureandomi infine con Antonio Banfi».
Che ricordo ha del filosofo?
«Le sue lezioni erano tra le più belle che potessi frequentare. Di qualunque cosa parlasse si notava la grande libertà. Mi laureai con una tesi sull’estetica nell’impressionismo francese. Ero, oltretutto, appassionata del greco antico e non c’era ancora nel mio orizzonte nessuna pulsione per l’America».
Quando è arrivata?
«Dopo un lungo giro, avventuroso. Dall’Inghilterra, dove mi ero trasferita, presi a viaggiare in Africa. Avevo in animo di fare la giornalista. Arrivai a Tripoli, visitai il Nord Africa. Fui ospite per un certo periodo al Cairo del conte Paolo Caccia Dominioni. Si era dato il compito di raccogliere nel deserto le ossa dei militari italiani, per il Sacrario di El Alamein».
Lei lo accompagnò?
«Spesso ci muovevamo insieme con la sua jeep alla ricerca di resti di una archeologia umana. Talvolta si attraversavano zone ancora minate e vedevo quest’uomo impavido farmi coraggio. Dal Cairo scrissi per Epoca, allora diretta da Enzo Biagi. Passai alla rivista Comunità. Infine a Il Mondo di Pannunzio. Continuai a viaggiare: la Mosca di Krusciov, i kibbutz di Israele. Mi documentavo e scrivevo».
Quando arrivò l’America?
«Il primo sguardo fu letterario. Sono nata tra le due guerre, nel 1925, e fu per una reazione alla chiusura del fascismo che iniziai a sollevare i lembi di un lenzuolo misterioso. A otto anni avevo letto Piccole donne, mi ero identificata con Jo, la sorella irrequieta e refrattaria ad accettare ruoli conformistici. Fu la sua passione letteraria a farmi scoprire quanto fosse potenzialmente esplosiva la parola di una scrittrice. Poi al liceo venne la scoperta di Melville e del suo capolavoro che Pavese aveva tradotto con infinita ricchezza. Io, donna del lago, ero mentalmente sedotta da quei contemplatori dell’acqua di cui si parla nel primo capitolo di
Moby Dick».
Che effetto le fece allora il romanzo?
«Appresi di istinto quanto diversa fosse la letteratura americana da tutto quello che avevo letto. Ma questo lo avrei scoperto più tardi. Al momento, leggendolo per la prima volta, nella mia città lacustre, isolata dalla guerra, vidi l’avventuroso viaggio e la caccia ostinata alla mostruosa creatura. Vidi che il confine tra terra e mare, tra realtà e immaginazione andava sparendo».
In che senso la letteratura americana sarebbe diversa?
«Fu Pavese a parlarne per la prima volta in relazione alla letteratura inglese. In quella americana il rapporto tra il dato reale e la parola è immediato e credo che questo dipenda da una maggiore vicinanza al selvaggio. Emerson sostenne che la storia dell’America fu in larga parte segnata dal ruolo dominante della natura. Anche Thoreau, se si legge Walden, dà l’impressione di scrivere sovrastato dagli elementi naturali».
A parte "Piccole donne" e "Moby Dick", cos’altro ha contribuito a farle abbracciare la letteratura americana?
«Un qualche peso lo ha avuto il mio soggiorno nel castello di Leopoldskron a Salisburgo, dove nei primi anni Cinquanta erano stati organizzati dei seminari per far conoscere la cultura americana. Seppi che nel 1953 c’era stato Robert Lowell. A quanto pare Lowell, felicemente sposato, perse la testa per una bellissima ragazza italiana e dicono che fuggì nottetempo dal castello. Arrivai a Salisburgo l’anno dopo. Edmund Wilson teneva le sue lezioni sulla letteratura della guerra civile. Era giunto al castello con la moglie e la figlia piccola. Un uomo magnifico e austero, che produceva una certa soggezione. In quei giorni, conquistai la sua fiducia e nacque un’amicizia che è durata negli anni».
Il suo primo viaggio?
«Nel 1959 con il piroscafo Queen Elizabeth. Fu Arturo Schwarz – gallerista ed editore – a commissionarmi un’inchiesta sul romanzo americano del dopoguerra. Avevo da poco conosciuto Elio Vittorini e gli chiesi quali autori secondo lui avrei dovuto incontrare nel mio viaggio americano. Notai un certo imbarazzo».
Dovuto a cosa?
«Al fatto che la sua generazione, e quella di Pavese, era ferma a Faulkner e Hemingway. Non gli importava nulla di Nelson Algren e Truman Capote, che si erano imposti agli inizi degli anni Quaranta. Il solo ad incuriosirlo in quel momento era John Fante. Mi fece gli auguri e partii per quella grande avventura».
Come è stata?
«Straordinaria. Devo tantissimo a Mauro Calamandrei, allora inviato dell’Espresso, che mi aiutò nei momenti difficili. Ai tanti scrittori che conobbi arrivai grazie a Dwight Macdonald. Il suo nome mi aprì tutte le porte della comunità intellettuale newyorchese».
Era così potente?
«Era un uomo rapido, spericolato per il quale niente era impossibile. Il suo saggio su Masscult e Midcult era in quel momento tra le cose più lette».
Chi ha conosciuto e frequentato?
«Il primo fu Norman Mailer, che viveva a Greenwich Village, poi James Baldwin e Ralph Ellison, Carson McCullers, la scrittrice che mi pregò di non intervistarla. Era ormai stanca e malata. Senza più alcuna traccia di quella personalità che Cartier- Bresson seppe ricreare nelle foto che le dedicò. Poi incontrai un giovanissimo Philip Roth».
Che effetto le fece?
«Mi parve un uomo molto consapevole delle proprie qualità. Lo incontrai a New York. Fu lui a volermi conoscere. Aveva saputo di una giovane italiana che stava lavorando al romanzo americano. Mi venne incontro un uomo dagli occhi scuri e ardenti, stempiato. Agile nel portamento e nella mente. Fin dal suo primo libro, Addio, Columbus, seppe cancellare o nascondere l’imbarazzo dell’esordiente. Ero meravigliata dalla capacità di rincarnarsi nei personaggi dei suoi libri e di rendere perfino il suo corpo materia romanzesca. Ma, per quanto la sua bravura sia indiscutibile, non l’ho mai amato particolarmente».
Perché?
«Non lo sento vicino. Ardimentosi i suoi temi: il sesso, la malattia, il massacro della vecchiaia; audaci le provocazioni etniche. Ha usato la scrittura per curare le proprie ferite. L’ho ammirato. Ma non era il mio autore. Non lo era diversamente da Salinger, dotato di una sensibilità più sottile e con uno spiccato odio per l’artificio».
I suoi primi anni americani sono anche quelli della beat generation.
«Ho conosciuto bene quel mondo. Credo di essere stata la prima a occuparmene con un’antologia di testi che tradussi per la Lerici nel 1962. Per me quell’anno passato tra l’altro al Village fu l’anno dei poeti. Howl di Allen Ginsberg veniva letto ovunque. Improvvisamente si scoprì un’America notturna popolata da gente estrema: drogati, emarginati, folli, scrittori e poeti sconosciuti. Fu una rivelazione».
Lo fu anche per Fernanda Pivano, altra grande americanista. Come sono stati i vostri rapporti?
«In tutta tranquillità, posso dire che ci siamo ignorate. Non ho mai avuto il talento di rendermi popolare. Cosa che Nanda ha saputo coltivare con grande abilità. Ricordo che Vittorio Sereni mi chiese di presentare Kerouac a Milano. Il teatro era stracolmo. Jack alticcio, ma per lui era la norma. Cominciai a parlare della sua poesia e del suo romanzo. Quando improvvisamente dalla platea si levò, sempre più forte, un mormorio: "Nanda! Nanda! Nanda!". Nel mio narcisismo non capii che era una protesta. Volevano la Pivano e avevano me. Alla fine deviai su una spiegazione semiologica del lavoro di Kerouac e il pubblico intimidito si azzittì».
La infastidisce non avere avuto lo stesso successo?
«Per niente. Prima di decidere di diventare scrittrice in proprio, ho riempito molti diari. Quasi inseguendo il mito della clandestinità contro coloro che si dannano per essere popolari. È un modo dignitoso di stare al mondo».
Continua a scrivere?
«Avevo smesso dopo la morte di mio marito, nel 2011. Per anni sono stata inoperosa. Ora ho ripreso».
Ha, come si dice, elaborato il lutto.
«No, non c’è un lutto vero senza amore. E il mio amore per lui che non c’è più è restato intatto. L’espressione "elaborare il lutto" mi fa pensare alla digestione. Ho ripreso a scrivere anche per lui. Per me la scrittura è l’attimo di eterno che ci è concesso nella vita. Mentre scrivo non mi sento più mortale».
Come scrive?
«Non ho computer e alla macchina da scrivere ho preferito tornare alla penna. È il mio mondo senza il feticcio della tecnologia».
Il mondo in cui vive come le appare?
«È un mondo dal quale mi sento isolata. Mi fa paura il fatto che si coltivi la paura negli altri. Essa è solo fonte di sciagure».
Di qui la scelta dell’isolamento?
«Non è una scelta, è una condizione. Nabokov, che incontrai in Svizzera, lui sì scelse di murarsi nella letteratura. Viveva all’hotel Palace di Montreux. Un grande albergo dove un esercito di invasori cercava di stanarlo. Erano gli effetti della immensa popolarità. Ricordo Vera, la moglie: i capelli bianchi alla paggetto, l’abitino nero, mentre sulla porta attendeva che gli ultimi invasori lasciassero la suite. Nabokov mi disse che ogni artista ha un motivo ornamentale. Come un riconoscimento. Senza saperlo, involontariamente, lui stesso era diventato un ornamento».