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 2018  agosto 05 Domenica calendario

Quel che resta di noi Taviani

La voce di Paolo Taviani, ottantasei anni, ha ritrovato colore ora che è nella sua Salina, alle isole Eolie. La chiacchierata e poi un tuffo nel mare blu, ultima pausa prima del viaggio tra le rassegne che, in Italia e all’estero, celebreranno i film girati con il fratello Vittorio, scomparso lo scorso aprile.

L’8 e 9 agosto al Festival di Locarno presenta la versione restaurata (da Cineteca nazionale con Cinecittà Istituto Luce) di “Good Morning Babilonia”, la vostra lettera d’amore al cinema hollywoodiano.
«Avevamo sedici anni io e diciotto Vittorio, quando giurammo che avremmo fatto il cinema. Lasciammo Pisa per Roma, pensando magari anche a Hollywood. Dopo il successo di La notte di San Lorenzo ci chiamò il produttore Preston per una proposta americana. Consapevoli delle brutte esperienze di illustri colleghi rifiutammo: “ Noi sappiamo raccontare la nostra terra”. Ci mandò uno sceneggiatore che ci conquistò con la storia vera di quando il regista e produttore David Wark Griffith, innamorato del padiglione italiano all’esposizione del 1914 a San Francisco, reclutò gli unici due artigiani rimasti per il suo Intolerance. Ma girare negli Studios costava troppo e così ricostruimmo Hollywood, anche per il silenzio necessario alla presa diretta, nei vecchi studi a Pisa dove da ragazzini sbirciavamo film come Imbarco all’alba.
Con Vittorio ridevamo: sognavamo l’America e invece siamo finiti a venti chilometri di distanza da casa nostra».
I fratelli del film eravate voi, con qualche differenza. E il monologo di Griffith riassume la vostra idea di cinema.
«Persino Monicelli, sempre critico, ci disse che era bellissimo. Griffith parla al padre dei due artigiani che vorrebbe vedere i figli tornare a lavorare il marmo in Italia: “Il film è come una cattedrale: la creatività di uno non basta, ci vuole quella di tanti”. Quel film è il racconto della forza corale di chi lavora nell’arte. Un esempio concreto? Senza Gian Maria Volonté Un uomo da bruciare non sarebbe il film che è».
“Un uomo da bruciare” è il vostro primo film, girato cinquantacinque anni fa: si vedrà a settembre al SalinaDocFest.
« Abbiamo combattuto per realizzare questo nostro film sulla storia vera del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia. Mentre giriamo un documentario in Sicilia, passiamo a Sciara a incontrare la madre, la prima donna a rompere l’omertà. Ci accoglie in casa, ci porta sulla tomba del figlio con la nostra piccola troupe. Appena sente i “gragragrà” della Ariflex in movimento la signora si butta sulla tomba con pianti e grida da tragedia greca. Finisce la pellicola e sentendo il silenzio s’interrompe: “Si è rotto qualcosa?”. Riparte uno spezzone, lei ricomincia. Alla fine chiede tranquilla: “Vi offro un caffè?”. La troupe ridacchia e al momento anche noi. Poi capiamo che ci troviamo davanti a un fenomeno veramente straordinario: nel 1959 questa piccola donna analfabeta ha capito la potenza del cinema: ha recitato il suo dolore perché tutti gli altri capissero. Tornando in macchina continuavamo a parlarne, ed è in questo modo che è nato il film».
Lo ha rivisto?
«No. Non ci piace rivedere i nostri film: la forza spettacolare è nell’attesa, dopo manca la passione. Quel che vedo mi sembra realizzato da un’altra persona, un estraneo. Con Vittorio spesso ci chiedevamo: “Ma i nostri film reggeranno al tempo?”. Però ho avuto una sorpresa. Alla rassegna romana di Santa Croce in Gerusalemme sono stati presentati otto nostri film. Ero presente alla prima proiezione, accolta da folla e applausi, che, mi dicono, sono continuati per tutti i film. Noi siamo invecchiati, ma il nostro cinema meno».
Alla Mostra di Venezia si vedrà “La notte di San Lorenzo”.
«Quando è uscita la notizia hanno chiamato in tanti, con qualche reazione nuova rispetto al passato: l’immagine del fascista ucciso con le lance dagli antichi greci è tornata di attualità, quasi una risposta agli interrogativi che ci facciamo in questi giorni. Quell’immagine irrealistica ci portò problemi con i co- produttori che non la volevano. Ci consultammo con Tonino Guerra che sentenziò: o sarà una grande risata, ed è molto possibile, o diventerà il geniale Cosa ricorda della scena di battaglia tra contadini e fascisti dove compaiono i guerrieri greci evocati dalla fantasia della bambina?
«L’arrivo sulla collina, prima della scena. Vittorio e io scendemmo dalla macchina, ci apparve la distesa gialla di grano che all’epoca era alto, oggi con le macchine è nanerottolo. E in mezzo al giallo i guerrieri greci, gli attori vestiti come Achille e Patroclo che raggiungevano le loro posizioni. Il sole forte, il caldo, facevano brillare le armature, l’immagine di un grande, epico passato. A Vittorio scendevano le lacrime. L’idea della bambina, i racconti del nonno dell’Iliade, ci hanno dato la possibilità di passare dal racconto realistico alla fantasia con grande libertà, per tornare alla realtà arricchiti».
L’antifascismo l’ha scoperto con suo padre.
«A San Miniato mio padre era l’unico antifascista. Da bimbi io ero Figlio della Lupa, Vittorio un Balilla: ci insegnavano che il mondo intorno era fascista. Di notte a casa nostra era un continuo bussare: l’avvocato ebreo a cui mio padre passava le cause, altre misteriose figure. Mio padre era sempre più assente. Poi un giorno mia madre ci manda a portargli il cibo, è nascosto nel campanile. Tornando, sulla collina papà ci racconta tutto: l’orrore del fascismo, la lotta. Senza dirlo ai miei io vendo i pattini per comprare una Beretta, con altri vogliamo andare incontro agli inglesi. Mi viene requisita dai fascisti. Avevamo paura, non eravamo eroi. Ma aver visto il male soccombere grazie alla forza del bene ci ha fatto vivere momenti di felicità immensa, totale, e ci ha dato una grande forza e una fiducia nelle tante possibilità dell’uomo. E per questo ringrazio ancora nostro padre».
Che effetto le fa un ministro dell’Interno che cita Mussolini?
« Più negativo di quanto lei possa immaginare. Ma non so se lo faccia con coscienza o è soltanto il modo di dire di una certa nuova destra. L’antifascismo è radicato nella storia italiana, un progetto che volesse parlare bene del Ventennio sarebbe idiota».
Resta ottimista anche davanti a tutto questo?
« Faccio appello a tutto il me stesso che le ho raccontato per resistere a quel che accade oggi, che è deprimente».
Martin Scorsese ha chiesto di essere premiato da lei alla Festa di Roma a ottobre, dove si vedrà il vostro "San Michele aveva un gallo".
«Siamo amici. Quando giravamo
Il prato, nel ‘79, era fidanzato con Isabella Rossellini. Venne a trovarci sul set e poi qui a Salina. Avevamo poche stanze, affittavamo per lui un alberghino. La mattina si alzava tardissimo e raccontava: " Mi sveglio, ma ho un tale piacere di sentire intorno a me un parlare siciliano che mi fa tornare bambino a Brooklyn... mi piace lasciarmi cullare da questo mondo che torna". Sono felice di premiarlo, Toro scatenato è un capolavoro della storia dell’arte, non solo del cinema».
Dei vostri film Scorsese quali ama?
« Padre padrone, ma anche gli altri. Quando veniva sul set in Toscana si stupiva dei pochi mezzi: "Fate i film con niente, devo imparare da voi". Quando uscì Fiorile negli Stati Uniti senza dirci nulla organizzò una proiezione ristretta per presentarlo. Siamo riusciti ad avere il testo del discorso, bellissimo, che evocava la pittura rinascimentale».
Quando il cinema si è fatto linguaggio comune tra lei e suo fratello?
«Quando a San Miniato vedemmo Pel di carota, avevo otto anni. C’era una scena spaventosa in cui il ragazzo veniva inseguito da sé stesso. Vittorio e io dormivamo in stanza insieme e quando di giorno litigavamo, la notte, per farci dispetto, al buio uno dei due sbottava: " Pel di carota!" facendo urlare l’altro di autentico terrore».
Oggi lei che progetti ha?
« Vittorio e io non siamo mai vissuti senza scrivere, progettare, leggere, buttar via. Scavando nei nostri cassetti si trovano decine di piccoli soggetti, trattamenti, film mai fatti. Tutte le mattine, ed è un piacere, mi siedo al mio tavolo, leggo o scrivo e da tutto questo possono nascere sempre nuove possibilità ».