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 2018  agosto 05 Domenica calendario

Renzo e Lucia sono muti ma il kolossal parla

Se c’era un cinema che parlava era quello muto, non solo con le didascalie e il pianoforte che strimpellava sotto lo schermo, ma con lo sguardo degli attori – sognante e imprigionato all’invisibile quarta parete dello schermo. Dopo la Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, lontano 1928, con la Falconetti che perse nel rogo la ragione, si disse che il cinema non poteva non acquistare la parola. Ma le parole dei grandi romanzieri già le aveva acquistate e ridotte, diventando la prima serie economica, anticipando sceneggiati, Bur e Oscar. Le studiose «Giornate del cinema muto» di Pordenone, stimate in tutto il mondo, dopo aver divulgato film tratti da grandi dell’800 come Dickens, Hugo e il gettonatissimo Dumas, quest’anno esplorano I promessi sposi manzoniani nell’edizione del 1922 di Mario Bonnard, aitante attore e sugli schermi amante appassionato di Lyda Borelli, oltre a un’eccezionale rassegna di opere tratte dal genio di Honoré de Balzac, cinque lunghi e cinque cortometraggi tra il 1919 e il 1927.
La storia d’amore di Renzo e Lucia ha ispirato negli anni numerosi film muti e dispersi, arrivando al successo di questo kolossal di Bonnard, che è l’ultimo muto ma anche il primo parlato, perché nel ’34 fu rieditato in una versione sonora che gli concesse fama e la prima operazione di merchandising. Rimane un grande spettacolo di due ore, con molte scene di massa pittoricamente orchestrate sulle tavole artistiche di Camillo Innocenti, oltre al massimo dell’introspezione consentita e un cast di attori di teatro con Emilia Vidali e Domenico Serra seduti, come si dice, sul titolo, cioè protagonisti di non comune finezza psicologica. Scrisse il «Corriere della Sera» il 21 aprile 1925: «Il pubblico delle grandi occasioni si darà oggi convegno al cinema Reale (sala elegantissima in Piazza Missori, ndr) per assistere alla première del capolavoro della cinematografia italiana I promessi sposi, scrupolosa e fedelissima riduzione dell’opera manzoniana».
Bonnard (1889-1965), fu un dandy, attore e regista, diresse Fabrizi e la Magnani e nel ’59, a fine carriera, Alberto Sordi in Gastone, omaggio all’amico Petrolini: era moderno e firmò con I promessi sposi l’ultimo kolossal del muto, ora restaurato dalla Cineteca Italiana con la Cineteca di Roma, il Museo di Torino, il Film Institute di Stoccolma. Il film ebbe successo, anche all’estero, fu censurato in due scene di violenza, fu per decenni il punto di riferimento del romanzo che poi ebbe una riduzione famosa nel ’41 diretta da Mario Camerini con Gino Cervi, Dina Sassoli e mattatori teatrali come Ruggeri e Falconi, fino ai popolarissimi sceneggiati di Bolchi e Nocita, alle parodie spiritose dei Cetra e del Trio Marchesini Solenghi Lopez e ai due capolavori di Giovanni Testori, La Monaca di Monza e Promessi sposi alla prova, entrambi presto di nuovo in scena, oltre a scorciatoie e volgarizzazioni del cinema dèmi hard che ebbe per la Monaca una cotta, mentre Totò fu Il monaco di Monza.
Il film di Bonnard, con le sue studiate ma non retoriche inquadrature, accompagnato dalla partitura, in prima assoluta, dell’udinese Valter Sivilotti, era scomparso e l’unico negativo d’epoca sopravvissuto al tempo era dal 1947 nell’archivio della Cineteca Italiana, quella fondata a Milano da Comencini e Lattuada. Che ora, in epoca di restauri d’autore (tre Taviani ai Festival, e poi Olmi, Visconti…) ha compiuto questo certosino restauro che girerà il mondo cinefilo, dopo aver organizzato in passato sul film serate con il doppio spettacolo (anche teatrale).

Ma non sarà solo Manzoni protagonista a Pordenone, quest’anno davvero fiera di avere organizzato una personale balzachiana. Anch’egli un grandissimo «pittore» della società (francese) dell’Ottocento, amatissimo da Proust – entrambi morirono a 51 anni – che guardò dentro altri palazzi, popolare con i suoi feuilleton a puntate, materia prima del cinema con storie sorprendenti, magnifici incastri e quei personaggi che si rincorrono di romanzo in romanzo, da Papà Goriot a Illusioni perdute, come se la Storia fosse al suo servizio.
Anne-Marie Baron, presidente dell’associazione «Amici di Balzac» e curatrice della rassegna, ha scritto ampiamente dell’influenza dello scrittore sugli schermi. Prova ne sia che il cinema italiano aveva prodotto nell’epoca del muto trenta – trenta – adattamenti da Balzac, ma ne sopravvive soltanto uno, Spergiura! (1909) di Arturo Ambrosio (famoso produttore torinese) e Luigi Maggi, tratto da La casa del mistero, mentre è andata perduta Lyda Borelli Duchessa diretta da Gallone, autore addirittura di tre film tratti da Balzac. Sarà naturalmente nel gruppo, tra cui il più noto, frequentato oltre alla Cugina Bette (che ha avuto anche il volto spigoloso di Jessica Lange), è La duchessa di Langeais, meravigliosa storia di ripicche, silenzi e rimorsi d’amore.
Nella bellissima versione del 2007 di Jacques Rivette (regista anche della Bella scontrosa dal Capolavoro sconosciuto), ha come titolo originale quello previsto dallo scrittore, Ne touchez pas la hache, non giocare con il fuoco dell’amore. Anche per l’infinita commedia umana di Balzac ha dato aiuto la tv vintage con l’amaro Père Goriot, simbolo di pessimismo familiare e universale, ma a Pordenone si vedranno opere di molti Paesi, giusto per confrontare quanto contino le radici nazionali. Ecco tre versioni di Casa del mistero: oltre a quella italiana anche La grande bretèche di André Calmettes del 1909 e The Sealed Room, americano, 1909, 13’ ma niente meno che del maestro D. W. Griffith con Mary Pickford. E così due versioni della citata Duchessa di Langeais, quella francese del 1910 firmata sempre da Calmettes e Liebe del ’27, regia del tedesco Paul Czinner.
Gli altri titoli sono: Eugénie Grandet, francese, 1910, di Chautard e Jasset (ne esiste anche una riduzione di Mario Soldati del ’46 con Alida Valli); L’homme du large, 1920, di Marcel L’Herbier, da Un dramma in riva al mare; Paris at Midnight del ’26 di Mason Hopper (sempre Goriot); la Cugina Bette, versione francese del ’27 di Max de Rieux; L’auberge rouge, 1923 di Jean Epstein.