Corriere della Sera, 5 agosto 2018
I videoclip sono la videoarte per tutti
In un libro di qualche anno fa (Moderno? pubblicato in Italia da Kaplan nel 2008), lo studioso di cinema Jacques Aumont ha sostenuto che, nella maggior parte dei casi, i video degli artisti suscitano interesse soprattutto nei critici d’arte. Se i loro autori non fossero già riconosciuti dal «sistema», non verrebbero neanche selezionati in una rassegna cinematografica di dilettanti. Al di fuori dei circuiti museali dove vengono proiettati, quei video sarebbero considerati come meri «saggi filosofici».
Eppure, esiste una diversa forma di videoarte. Talvolta, meno autoriale. Meno intellettualistica. Più popolare. Rivolta non a un pubblico di esperti ma a un’indistinta community. Non ama indossare maschere eleganti. Ma si consegna in abiti casual. Inoltre, non si nasconde all’interno di musei o di gallerie. Ma preferisce disseminarsi quasi con leggerezza nella nostra quotidianità.
Il videoclip, dunque. A questo genere il critico Bruno Di Marino, nel 2001, aveva dedicato un volume accurato e documentato, Clip!, che esce ora, in una versione ampliata e aggiornata, da Meltemi, con un titolo diverso: Segni sogni suoni. Di Marino vi ricostruisce una storia e, insieme, vi individua alcuni nodi di carattere teorico.
Le tappe salienti di questa avventura, innanzitutto. 1975. A quell’anno risale il primo clip. È ispirato a Bohemian Rhapsody dei Queen. Ne è regista Bruce Gowers, che non si limita a riprendere la band da diverse angolazioni, ma suggerisce un’equivalente visuale della musica, trasformando i volti dei membri del gruppo in effigi divorate dall’oscurità. Momento decisivo: il 1983. Esce il clip horror di Thriller di Michael Jackson, diretto da John Landis: un cult. Gli anni Ottanta sono il decennio del videoclip. Un boom determinato, in larga parte, dal fenomeno Mtv, che garantisce un canale di distribuzione globale a questa originale macchina audiovisiva. Ma il network statunitense è soprattutto altro (secondo Di Marino): crea una consapevolezza della necessità che la musica venga supportata dalle immagini-in-movimento; «codifica e consolida una serie di esperienze precedenti slegate tra loro». Inoltre, caratterizzato da un’identità mutevole, Mtv si dà in sé come expanded video, composto, a sua volta, da tanti videoclip, da sigle, da pubblicità. Fino all’epilogo: la diffusione di smart-phone e tablet cambia la produzione e la fruizione dei videomusicali, che spesso seguono percorsi alternativi; vengono creati dal basso (da utenti e da appassionati); e sono destinati a piattaforme come YouTube, Vevo e Vimeo, dove chiunque può caricare il proprio contributo, sperando che diventi virale. Clamoroso l’exploit, nel 2012, del rapper sudcoreano Psy con il tormentone Gangnam Style.
Sono, questi, solo alcuni episodi di una storia ormai lunga circa mezzo secolo, nel corso della quale il videoclip si è configurato come un non-luogo. Un prodotto difficile da definire e da ricondurre dentro paradigmi tradizionali: troppo lungo per essere uno spot, troppo breve per essere un film. Nel 1983 un articolo su «Le Monde» riportava la seguente definizione: «Figlio del signor cinema e della signora musica, il videoclip è nato dalla televisione ma ha negli occhi tanta pubblicità».
Una pratica ibrida. Che negozia tra intenzioni e influenze varie, elaborando compromessi, riarticolazioni. Si interfaccia con e viene inglobato da altri media, spingendosi verso una coespressività. Si lascia contaminare dal cinema, dall’arte, dalla televisione e dalla musica e, insieme, contamina le sigle dei programmi tv, gli spot, i videogame, le fiction, i film, oscillando tra attitudini performative – si rappresenta un cantante o un gruppo mentre eseguono una canzone —, inclinazioni narrative – si rappresenta una sequenza di eventi che danno vita a una storia – e tentazioni concettuali – si sviluppa un tema attraverso una struttura associativa casuale.
Questo «nomadismo» si può ritrovare anche nelle scelte linguistiche ricorrenti nei videoclip. Che incarnano il «regime della mobilità» contemporanea: una sorta di anticipazione delle modalità di fruizione richieste da web e social. Siamo dinanzi a costruzioni brevi e «superficiali», fatte di segmenti formati da circa sette-otto inquadrature (che durano pochi secondi). Testi densi e anticonformisti, realizzati per essere visti più volte.
Puro cinema-azione inventato da registi che operano come bricoleurs abili nel tenere insieme brandelli di visioni. Movimenti di camera sincopati. Riprese in movimento. Frequente ricorso a una specie di montaggio delle attrazioni (per servirci di una categoria cara a Ejzenštejn), che determina la dissoluzione delle strutture narrative e dei punti di vista. Altrettanto frequente il ricorso a tecniche come il mash-up e il remix: stratagemmi per assemblare materiali già esistenti, alimentando altre drammaturgie. Plot non-lineari e frammentari, che trasgrediscono i confini tra fiction e non-fiction. Ridondanza di sonorità, di spostamenti, di colori. Effetti speciali. Rapidi stacchi. Cambi di prospettive. Spesso, si procede per discrasie logiche, per spericolate ellissi. I fotogrammi si inseguono a grande velocità. Si imprimono nella nostra mente e vengono sostituiti subito da altri frame. Le immagini devono sintetizzare (un mondo, un’azione) e devono danzare (fondersi con la musica) negli occhi dello spettatore. Si impone l’ebbrezza del colpo d’occhio. Il videoclip è questo: una forma-flusso che fa dello sguardo «una modalità dell’ascolto».
Si tratta di un inter-genere, capace di accostare istanze estetiche e promozionali. Immagine e suono, video e musica si fondono e si inseguono. Testimonianze di uno slang generazionale, i videoclip nascono dalla canzone: e in base a essa si strutturano. E, tuttavia, la canzone è solo una traccia di partenza. Il regista restituisce il «ritratto» di un brano, cui associa suggestioni libere. Dunque, videoinstallazioni a bassa intensità. Che affondano le proprie radici nella stagione delle avanguardie primonovecentesche. Esercizi di «musica cromatica», d’impronta neobarocca, che oppongono agli estenuanti video di artisti come Huyghe e Gordon – profeti di un’estetica del tedio – ritualità visive fondate sulla velocità percettiva. Eventi di intrattenimento, che non esigono una partecipazione attiva (come i videogame), né richiedono attenzione (come i film), ma vogliono essere fruiti distrattamente. Ecco i videoclip: tra i più vitali casi di testualità audiovisiva postmoderna, esito dell’attuale estetizzazione diffusa.
Alcuni esempi di questa ulteriore declinazione pop della videoarte: Love for Sale dei Talking Heads (1987); Heroes di David Bowie (1977); Empire State of Mind di Jay-Z e Alicia Keys (2009); G.U.Y. di Lady Gaga (2014); Up&Up dei Coldplay (2016). E Apeshit, il recente e controverso videoclip di Beyoncé e di Jay-Z girato nelle sale del Louvre, tra opere dell’arte antica (la Venere di Milo, la Nike di Samotracia) e capolavori della pittura (la Gioconda di Leonardo e Il giuramento degli Orazi di David).
Per cogliere il senso di questa involontaria forma di videoarte, potremmo riferirci alle parole del filosofo Régis Debray: «Il modo di espressione considerato più volgare è spesso il più innovativo di un’epoca. È là dove si comunica meglio che si inventa di più».