Corriere della Sera, 5 agosto 2018
La vocazione sismica di don Benedetto Croce
Quando Benedetto Croce scrisse nel 1915, tra il 5 e l’8 aprile, il Contributo alla critica di me stesso, vi pose in esergo una frase del suo amato Goethe che così recita: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso?». In quel libro, che Gianfranco Contini considerava il «culmine espressivo» del critico dell’Estetica e che Giuseppe Galasso riteneva il testo in cui il filosofo della Storia come pensiero e come azionescoprì la sua «vocazione» che manterrà poi così alta per il resto dei suoi giorni e delle sue opere, Croce non tracciò confessioni o ricordi o memorie della già avventurosa sua vita, ma illustrò il suo svolgimento intellettuale e, proprio per osservare il proposito di Goethe, ricostruì la storia della sua vita come la storia del suo lavoro fino a identificare vita e lavoro. Il pensiero, infatti, è la lavorazione della vita che Croce mise in opera per vivere e per sopravvivere fin dal 1883 quando il terremoto di Casamicciola, sull’isola di Ischia, lo lasciò per una notte intera sotto le macerie e gli portò via la madre Luisa, il padre Pasquale e la sorellina Maria. La filosofia di Croce non nasce da Hegel, nasce dal terremoto.
Non sono pochi, ormai, gli studiosi che hanno dedicato attenzione alle radici esistenziali del pensiero del filosofo prima dell’«idealismo» e poi dello «storicismo assoluto». Si può citare il saggio di qualche anno fa di Maria Panetta Croce e la catastrofe, oppure il libro di Alfonso Musci La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce(Quodlibet). La tesi di quest’ultimo è tanto semplice e documentata quanto condivisibile: la filosofia crociana nasce dalla necessità di superare il trauma e allontanare «il demone della dispersione spirituale». Con «ricerca del sé» o «tecnologia del sé», Alfonso Musci, che ha curato anche la pubblicazione di Etica e politica nell’Edizione nazionale delle opere di Croce edita da Bibliopolis, fa riferimento sia al concetto dello psicoanalista Heinz Kohut sia al lavoro di Michel Foucault. In entrambi i casi è in gioco la costruzione di un soggetto che è assediato dall’angoscia e dalla sofferenza e ha la necessità vitale di superare il male in qualcosa di più grande, in un’opera nella quale attraverso il lavoro si risolva la stessa inafferrabile e passionale vita biografica con quell’«angoscia acuta – si legge nel Contributo – della quale ho tanto sofferto in gioventù» e che, lavorata, era diventata «angoscia cronica» che da «selvatica e fiera» si era fatta «domestica e mite».
Croce fu, come intuì Cesare Garboli nella Pianura proibita(Adelphi), il medico di sé stesso e la sua filosofia fu il suo farmaco. Del resto, per capire che il pensiero di Croce, basato sulla capitale distinzione tra giudizio e volontà, non nasce da Hegel se non in seconda o terza battuta, bensì dal «tremuoto» di Casamicciola, non è neanche necessario rifarsi ai commentatori, perché basta lo stesso filosofo: «Filosofavo, spinto dal bisogno di soffrir meno e di dare qualche assetto alla mia vita morale e mentale». Non a torto, Emanuele Severino direbbe che l’«origine» del pensiero filosofico è nelthauma, nella paura, nell’angoscia prima che nella meraviglia. Sennonché, la nascita del pensiero crociano dal terremoto è solo la prima parte della verità. La seconda è quella in cui il concetto della «verità come storia», espresso per la prima volta proprio nel Contributo alla critica di me stesso, terremota a sua volta la filosofia fino a provocarne una sorta di eutanasia nella storiografia.
Il libro di Musci ha come seconda parte del titolo Indagini su Benedetto Croce. È scopertamente un titolo crociano che si richiama all’ultimo libro di Croce, Indagini su Hegel, con cui in realtà Croce, più che indagare Hegel, indagò sé stesso, facendo emergere la particolarità del suo «storicismo assoluto». È vero che definì Hegel «mio amore e mio cruccio», ma è ancora più significativo che per Croce il pensiero di Hegel non fosse da riprendere sulla scia teologale di Bertrando Spaventa, come fece Giovanni Gentile, semmai su quella mondana e critica di Francesco De Sanctis; ecco perché alla fine dei suoi giorni rivendicava, anche con orgoglio, che l’origine della dialettica non era da vedersi nel pensiero – il Gran Prevaricatore di Spaventa —, ma nella vitalità «cruda e verde» che, vista nella sua funzione creatrice e distruttiva, rende il mondo allo stesso tempo redento e tragico e ci obbliga a lavorarlo.
Stando così le cose, non è possibile sostenere, come fa Jonathan Salina nel libro La rinascita dell’idealismo(Carocci), che il pensiero di Croce «è parso meno capace di adattarsi alle esigenze speculative del pensiero continentale del Novecento» fino a farne una sorta di Gentile minore e rispolverare la stessa polemica gentiliana con la definizione del pensiero di Croce come «la filosofia delle quattro parole» (bello, vero, utile, bene). In filosofia, come nella vita, è sempre in gioco un parricidio e il «distinto» di Croce sta a Hegel come il «diverso» di Platone sta a Parmenide: senza questa diversità non si può esprimere giudizio e non c’è conoscenza, ma solo l’Essere e i suoi sacerdoti. Se è vero, come giustamente nota Salina, che la definizione di neohegelismo e neoidealismo italiano è vaga e sa molto di manuale scolastico, è altrettanto vero che fu lo stesso Croce a sottolineare che lo storicismo è la «rivoluzione mentale della modernità» e portò così in fondo questa rivoluzione fino a ritenere necessario abbandonare la denominazione di «idealismo» che considerava equivoca.
La differenza tra Croce e Gentile è più profonda di quanto non si immagini e riguarda sia il «dissidio mentale» sia quello politico o, se si vuole, il primo che «si è convertito nel secondo», come scrisse Croce a Gentile nell’ultima sua drammatica lettera del 24 ottobre 1924. Infatti, fin dalla nascita della loro amicizia e della loro collaborazione, alla fine dell’Ottocento, i due si intesero fraintendendosi: Gentile, erede senz’altro di Spaventa, mirava alla creazione di una «filosofia della prassi», mentre Croce iniziava già a risolvere la filosofia nella storiografia fino a fare, poi, della prima il momento metodologico della seconda. Chi subito capì che tra i due «idealismi» non solo vi era differenza, ma che sarebbe andata a finire maluccio, fu Antonio Labriola che, però, fu ignorato.
Quando sulla scena irruppe Benito Mussolini con il suo movimento politico, Gentile portò la filosofia al potere e identificò liberalismo e fascismo, filosofia e politica, mentre Croce contrappose al fascismo il liberalismo e differenziò pensiero e politica, conducendo la filosofia all’opposizione. La differenza speculativa diventava anche una differenza civile: l’idealismo di Gentile troppo facilmente identificava pensiero e azione, mentre lo storicismo di Croce con il suo «giudizio storico», con cui si conosce solo ciò che è stato fatto, faceva del pensiero una forma di tutela della libertà d’azione o di fondazione del pluralismo, come disse Nicola Matteucci, e in sostanza il momento della critica dei miti e dei sofismi, di ieri e di oggi, autoritari e totalitari, di destra e di sinistra, che ciclicamente ritornano nella storia europea e della nostra anima. Una differenza ancora valida e utile ai nostri giorni, in cui troppo spesso e con grande facilità la democrazia liberale è messa in discussione in nome di un indistinto «governo del popolo».