Corriere della Sera, 5 agosto 2018
La santità è cristiana (non democristiana)
In questa nostra terra così cattolica abbiamo sempre bisogno di santi, e di miracoli. Ne abbiamo particolare bisogno nei momenti cruciali, quando ci manda a picco il nostro genio per le scorciatoie: far sparire il debito con il gioco delle tre carte, mandare i conti allo Stato Pantalone, trattare i potenti stranieri con i mezzucci del servitore furbo, risparmiare qualche denaro di sapere oggi per pagare l’immenso prezzo dell’ignoranza domani. Abbiamo bisogno di santi, e di miracoli, nei momenti decisivi della nostra storia. Dei santi e dei miracoli giusti, però. Non ci serve il santo della festa, fuochi d’artificio la domenica e spazzatura in strada tutto l’anno; non la santa consolatrice per rassegnarci alla sconfitta, alla subalternità; non il santo del particolarismo, della consorteria, del gruppetto che ha fabbricato il dossier per la canonizzazione, tirato su le centinaia di migliaia di euro necessarie, tenuto a bada i rivali, trovato i canali giusti. Abbiamo bisogno del santo che spinge alla fatica del creare ricchezza, non del santo milionario. Del santo che ispira la forza di cercare la salvezza, non del santo in paradiso.
Lo scorso 19 marzo, Papa Francesco ha pubblicato l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Il capo della Chiesa di Roma non intende offrire «un trattato sulla santità», né riformare in alcun punto la tradizionale dottrina cattolica su beatificazioni e canonizzazioni. Gli interessa piuttosto chiarirne il senso oggi. Il santo vale in quanto incoraggia e accompagna il percorso di ciascuno verso la santità. Conta la santità quotidiana, nelle piccole cose, nei legami con la famiglia e la società. La santità di chi non è per forza vescovo o sacerdote, religioso o religiosa, di chi può persino essere fuori dalla Chiesa cattolica. La santità che si realizza nelle occupazioni ordinarie e nell’esercizio della responsabilità: «Hai autorità?», scrive Francesco, «Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali».
L’uscita del documento pontificio è coincisa con l’anniversario del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. Il termine martirio è stato spesso usato. Molto si è parlato della fede della vittima. La celebrazione delle qualità pubbliche e private dello statista pugliese si è sovrapposta a un processo di beatificazione in pieno sviluppo. Chi lavora per il beato Aldo Moro s’impegna perché venga provato uno dei vari miracoli ascrivibili al presidente della Democrazia cristiana, che da essa si dimise durante la prigionia, oppure perché si accetti la tesi del martirio, che, si dice, renderebbe inutile la prova di un avvenuto miracolo. Se poi si riconoscesse l’ideologia anticristiana dei terroristi comunisti, si potrebbe anche sostenere che si trattò di un martirio a causa della fede. Il caso di Moro sarebbe allora simile a quello dei milleduecentotrentacinque, in gran parte sacerdoti e religiosi, ammazzati da comunisti e anarchici spagnoli durante la guerra civile, fra il 1936 e il 1939, e beatificati da Giovanni Paolo II nel 2001, da Benedetto XVI nel 2007 e da Francesco nel 2013.
La beatificazione di Moro non è l’unica di politici italiani. Sono in corso, in fasi diverse, le cause di Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira; si aspetta per Benigno Zaccagnini. Paiono superficiali i commenti. Da una parte risuona la nostalgia per un vivaio di politici cattolici impossibile nell’Italia e nel cattolicesimo di oggi. Dall’altra, il sarcasmo su santa Democrazia cristiana e san Giulio Andreotti, come se non ci fossero ancora tanti conti da fare con la dimensione religiosa della nostra storia politica recente.
Sono reazioni che distraggono dalla questione: di quali santi e miracoli abbiamo bisogno? Dei santi festivi, consolatori e particolaristici? Oppure dei santi feriali, con le maniche rimboccate, dediti al bene comune? Del santo che si staglia solo sull’umanità? Del super santo che basta per tutti? Oppure del santo tra tanti, che ispira tanti alla santità? Del santo che supplisce, intercede, raccomanda al potente, oppure del santo che dall’aldilà si raccomanda all’aldiqua, e rende potente chi con esso si allaccia in preghiera?
Sui titoli di santità di Moro, De Gasperi, La Pira e Zaccagnini, magari di Andreotti, si pronuncerà l’autorità ecclesiastica, a tempo debito. Sul tipo di santità che essi incarnerebbero possiamo invece già esprimere dubbi. Forte è infatti il rischio che i beati e santi democristiani, indipendentemente dai loro meriti politici e spirituali, si rivelino esempi del santo festivo, consolatorio e particolaristico di cui non abbiamo bisogno. Sarebbero la statua d’argento illuminata da cento lampadine, portata al centro della piazza mediatica digitale per la curiosità e il divertimento del popolo. Sarebbero il simbolo del prestigio della politica cattolica: a vana consolazione degli intellettuali ammiratori dei grandi democristiani che hanno disprezzato da giovani, e dei militanti cattolici educati a specchiarsi nel passato invece di sporcarsi le mani con la corruzione delle loro comunità. Soprattutto, i beati e santi democristiani sarebbero l’icona del particolarismo. Ostaggi delle consorterie che nella loro causa si sono identificate, degli interessi dei territori di riferimento, dei professionisti delle cause canoniche.
Tutta diversa è la santità proposta da Jorge Mario Bergoglio. Come diversa è la santità di cui hanno bisogno gli italiani. La sfida cattolica globale e la sfida italiana si intrecciano. Terminata l’estate, toccherà di nuovo a un italiano dirigere la Congregazione delle cause dei santi, dopo i dieci anni al vertice del cardinale Angelo Amato. Il nuovo prefetto sarà il cardinale settantenne Giovanni Angelo Becciu, a lungo diplomatico della Santa Sede in Paesi importanti. Per il bene nostro, e della Chiesa, continueremo a essere un popolo di santi. Speriamo non di santi festivi, consolatori e particolaristici; non di santi intercessori, di «santi in paradiso». Neppure di santi arruolati a un nazionalismo che bestemmia il cristianesimo, e che è pure una costante tentazione per il cattolicesimo nostrano. Speriamo, cioè, di non essere il «popolo di santi» celebrato da Benito Mussolini nel 1935, alla vigilia della conquista dell’Etiopia, sei anni dopo i Patti lateranensi con la Santa Sede e undici dopo aver costretto all’esilio don Luigi Sturzo, altro democristiano illustre sulla via della beatificazione dopo la conclusione nel novembre scorso della fase diocesana del processo.
Come in Miracolo a Milano, film detestato dai progressisti e dai conservatori dell’Italia d’inizio anni Cinquanta, la santità di cui abbiamo bisogno sta in equilibrio tra il quotidiano e l’ideale, tra la responsabilità e la fede, tra la tenacia nel mondo e la fiducia nel soprannaturale. Essa è questione di piccole, grandi verità, dette e praticate, in politica non meno che nell’impresa e nel commercio. Ha ragione Totò, il protagonista del film di Vittorio De Sica interpretato da Francesco Golisano: può fare veri miracoli chi si spende per un mondo in cui «buongiorno voglia davvero dire buongiorno».