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 2018  agosto 05 Domenica calendario

Trump e i giochi pericolosi su Teheran

Che cosa vogliono gli Stati Uniti in Iran? Spargere il sale su Teheran, come Roma sopra Cartagine, cancellando dal planisfero un soggetto geopolitico di tradizione più che bimillenaria? Ridurre la Repubblica Islamica a protettorato a stelle e strisce? Installarvi un governo amico via colpo di Stato, replica al grado superiore del rovesciamento di Mossadeq, carismatico premier reo di nazionalismo petrolifero?
O forse la pressione scatenata con la denuncia unilaterale dell’accordo sul nucleare iraniano e il conseguente inasprimento delle sanzioni, con bellicoso accompagnamento di propaganda contro il regime “terrorista” e “mafioso”, è solo l’ennesima brutale apertura di negoziato à la Trump: senza obiettivi prefissati né calcolo di sequenze tattiche salvo l’esibizione di forza a fini domestici, la rumorosa riaffermazione del primato americano nel mondo e, non ultimo, il gusto di obliterare il massimo successo diplomatico del suo predecessore? Posta alla dozzina di decisori che determinano in ultima istanza la geopolitica americana, la domanda otterrebbe probabilmente altrettante risposte diverse. In parole povere, la strategia americana sull’Iran non esiste. È consenso diffuso fra noi italiani e altri europei che la guerra totale fra Stati Uniti e Iran sarebbe calamità. Convulsioni nel mercato energetico e nei commerci Europa-Asia, probabile allargamento del conflitto tra Levante e Afghanistan, ulteriore esodo di profughi e movimenti di foreign fighters, attentati terroristici – il catalogo dei danni prevedibili è impressionante, per tacere degli inevitabili imprevisti. Emissari di Washington hanno fatto il giro delle capitali europee non per convincerci delle loro ragioni – tempo sprecato – ma per rammentarci che non abbiamo voce in capitolo: «Non provate a mettervi di traverso». L’ammonimento vale soprattutto per francesi, tedeschi e britannici, che concepivano la tregua sul nucleare persiano quale accordo commerciale volto a riaprire alle loro imprese un ambito mercato. Ci credevamo anche noi italiani, tradizionali partner dell’Iran in campo non solo energetico. Il governo Renzi aveva allestito un pacchetto di investimenti industriali e infrastrutturali da 5 miliardi di euro. Evaporati.
Nel nostro pangiuridicismo ci aggrappiamo al diritto internazionale per contestare agli Stati Uniti la legittimità delle sanzioni secondarie che affossano la ripresa dei nostri traffici con l’Iran. Quasi che l’impero americano, sovraordinato per autodefinizione, possa rinunciare all’applicazione extraterritoriale delle proprie leggi o cedere alle ingiunzioni di qualche improbabile “corte internazionale”. Forse la guerra sarà evitata. O forse no. Ma un minuto prima di decidere se vestirsi da comandante in capo per scagliare il più formidabile esercito del mondo contro l’Iran, l’unico leader “estero” di cui Trump vorrà sentire la voce sarà Netanyahu. Oggi primo ministro d’Israele, per vent’anni fiero cittadino degli Stati Uniti, tuttora influente nel Grand Old Party. Poi d’improvviso la linea cadrà e una voce deferente ma ferma spiegherà al presidente ciò che (non) deve fare.