Corriere della Sera, 5 agosto 2018
Gianfranco Ferroni e l’angoscia del vuoto. La pittura di un antiromantico
Alla Biennale veneziana del 1968, Gianfranco Ferroni (1927-2001) ha una sala personale dove porta una scelta di quadri dell’ultimo decennio: «Uno dei momenti di massimo riconoscimento del mio lavoro», che, purtroppo, si risolve in una bolla di sapone.
Il motivo? Da mesi, l’Accademia di Belle arti è occupata da studenti, spalleggiati da alcuni insegnanti, fra cui Emilio Vedova. L’inaugurazione ai Giardini avrebbe dato eco alla protesta.
Risultato? Scontri con la polizia, qualche ferito e Biennale presidiata: 19 artisti su 22 si schierano con gli studenti e preferiscono coprire le loro opere. Tornata la calma, Gastone Novelli e Carlo Mattioli si ritirano definitivamente da Venezia; Ferroni invece resta, ma lascia i quadri con la faccia rivolta alla parete.
Che cosa ha rappresentato, per il pittore toscano, la Biennale del 1968? «Uno spartiacque fra due epoche e momento di svolta nella sua storia personale e artistica», nota Nadia Marchionni, curatrice della rassegna Tutto sta per compiersi (titolo di uno dei dipinti presenti ai Giardini) a Palazzo Mediceo di Seravezza (sino al 16 settembre), in provincia di Lucca. Ed ecco un centinaio di lavori dal 1955 al 2000: autoritratti, oggetti, interni dell’atelier, città, racconti d’estate, Deposizioni, ecc.
Dalla natia Livorno, interrotti gli studi al liceo scientifico, Ferroni (detto «l’Ho Chi Minh dell’arte» per il suo aspetto), autodidatta, approda a Milano nel 1944. Brera è il cuore degli artisti: conosce Carrà (che abitava a cento mesi dalla sua casa), Dova, Crippa, Cazzaniga, Ajmone, Morlotti, Francese, Chighine, Kodra. Nel 1949 si iscrive al Pci, dal quale si staccherà, nel 1956, dopo i fatti d’Ungheria. Nel 1968 si trasferisce a Viareggio. Nel 1974 torna a Milano e dal 1987 va a vivere a Bergamo.
Figurativo, informale, astratto, realista esistenziale, ecc. ecc., agli inizi punta sul sociale, sul politico, sulla memoria (ricordate Zigaina e Vespignani?). Quindi, la crisi. Rendendosi conto dei cambiamenti, velocissimi, che avvengono attorno a lui, ad una fase di un primo sgomento, segue la riflessione (che perdurerà sino alla fine).
Ferroni si estranea da tutto, per cogliere «la vita silenziosa delle cose». Il suo modello? Jan Vermeer. Vissuto nel Seicento, l’artista olandese ha raffigurato, per tutta la vita, l’interno della propria casa. Ferroni sceglie il proprio atelier. Arredo semplice, anonimo, quasi povero: una seggiola, un tavolino, un cavalletto, qualche bicchiere e bottiglia, un paio di ciotole, un barattolo portamatite, le forbici, alcune scatolette, il letto disfatto. L’atmosfera? Ossessiva, febbricitante, da incubo quasi. Non c’è alcun essere vivente.
Apparentemente tutto ha il senso, il sapore dell’attesa di un personaggio che, da un momento all’altro, deve fare il suo ingresso. L’attesa, appunto. Come in Finale di partita di Beckett. L’azione sembra immobilizzata, così come immobilizzato e grigio si presenta l’interno. Nessuna connotazione emotiva, sentimentale. Vermeer, s’è detto, ma anche Antonello, Van Eyck (Ferroni adorava I coniugi Arnolfini), Chardin, Seurat, Giacometti e, per certi versi, soprattutto Giorgio Morandi.
Che cos’è la pittura, per Ferroni? «Una droga, un modo di comunicare con gli altri, una necessità assoluta». Il pittore toscano personifica il disagio dell’uomo moderno che vive in una società priva dei «punti di riferimento di una volta». Da qui, il senso d’angoscia, la costernazione, il grande vuoto dell’artista «religioso» contemporaneo (egli vede il mondo da laico, anzi da ateo, come diceva di essere).
La sua religione, infatti, non ha nulla a che fare con la Chiesa; nasce dall’osservazione della realtà («Tutto ciò che non sappiamo spiegarci crea sempre una sorta di mistero: di religiosità, appunto). Il segno si infittisce e si dirada, s’intreccia e si libera. Segno di luce, segno che diventa luce. Ogni cosa appare logica, non modificabile. Ma che cosa scandaglia esattamente, «il cinese dell’arte»? Lo spazio, nella sua micro-organicità: particelle di luce, miriadi di punti e linee. E il vuoto. Proprio così: il vuoto. Nell’87 mi aveva detto: «Siamo all’opposto dell’opera aperta. L’esatto contrario del gesto, dell’intuizione. Sono un antiromantico».
Conseguentemente, lo spazio dipinto rappresentava il silenzio, l’assenza, l’attesa. Una volta era possibile confrontarsi con qualcuno o con qualcosa in maniera tranquilla? Con la spettacolarizzazione: si cominciava a parlare normalmente; man mano il tono si alzava sempre di più sino a quando, per superare la voce dell’altro, si era costretti a gridare. Allora il buon Ferroni prendeva il sassofono e cominciava a suonare. E il frastuono che lo circondava? Diventava inesistente.