Corriere della Sera, 5 agosto 2018
Il #MeToo delle donne sudcoreane che si ribellano ai guardoni hi-tech
Pare che la prima cosa che fanno le donne sudcoreane quando entrano in un bagno pubblico sia «bonificarlo». Dover usare la toilette di un ristorante, spogliarsi nel camerino di un negozio, in palestre o piscine è diventata un’esperienza «snervante» di questi tempi a Seul. «Non sai mai se ci sia una telecamera nascosta a riprenderti» lamenta Claire Lee. Nemmeno il caldo torrido ha fatto desistere questa studentessa di 22 anni dall’unirsi all’«onda rossa», il fiume di 40mila donne vestite con il colore della rabbia, che ha inondato ieri la capitale sudcoreana, urlando «La mia vita non è il tuo porno» contro quella che chiamano «un’epidemia».
Spie elettroniche pronte a «rubare» e rilanciare le immagini più intime sui social e su siti «per guardoni» possono essere dovunque, anche in ufficio. Un fenomeno dilagante – lo chiamano «molka»: intimità rubata da telecamere —, non nuovo per la verità. Ma per la prima volta ha provocato in Sud Corea un’ondata di indignazione e attivismo al femminile sfociati in proteste di massa qui mai viste di queste proporzioni. Quasi un effetto locale del #MeToo. Il primo raduno, con alcune manifestanti a volto coperto per timore di ripercussioni, si è svolto a maggio. La rabbia è montata dopo l’arresto di una modella, accusata di aver fotografato di nascosto un collega nudo mentre posava in un liceo artistico e averlo ridicolizzato online. Decine di migliaia di sudcoreane sono scese in piazza contro la giustizia a due velocità: in casi simili, quando i colpevoli sono uomini (nella stragrande maggioranza dei casi), non succede quasi mai che vengano arrestati subito, osservano le manifestanti. «Gli autori di questi video, quelli che li caricano online, quelli che li guardano: tutti devono essere puniti duramente» hanno scandito all’unisono le donne in rosso ieri nel centro di Seul.I video «rubati» sono ampiamente condivisi su siti porno e chat benché divulgare immagini pornografiche sia illegale.
Il numero di reati legati alle «spycam» è salito dai 1100 del 2010 a oltre 6.500 dello scorso anno, ma la maggior parte dei colpevoli (tra loro anche docenti, medici, preti e poliziotti) se l’è cavata con una multa o con la condizionale. Su 6.465 casi del 2017, solo 119 (il 2%) sono finiti in prigione. Se la cavano «con una tirata d’orecchi» protestano le attiviste.
Le cattive abitudini di una società tradizionalmente patriarcale e maschilista sono aiutate dal primato tecnologico sudcoreano. La legge impone alle aziende di costruire cellulari che emettono un suono forte quando scattano foto o filmano, ma si è già diffuso l’antidoto: una app che silenzia questo «allarme». Come pure microcamere nascoste in occhiali, orologi e persino nelle cravatte sono ormai alla portata di tutti.