Corriere della Sera, 4 agosto 2018
Bravo studente, idealista, terrorista: la madre di Osama spiega bin Laden
La mamma di Osama non è diversa da altre madri, indulgenti con i figli. A sentire Alia Ghanem, tutto è andato storto perché il futuro leader di al Qaeda ha frequentato le cattive compagnie. In fondo «era un ragazzo buono, generoso e studioso – ha dichiarato nella prima intervista mai concessa a The Guardian – solo che gli hanno fatto il lavaggio del cervello». Dove? All’università Re Abdelaziz di Gedda. Qui bin Laden incontra figure radicali, compreso l’ideologo palestinese Abdallah Azzam: «Sono queste persone che lo hanno cambiato, erano come una setta, che ha ricevuto denaro per agire», afferma la donna d’origine siriana oggi residente in Arabia Saudita. E aggiunge quasi a volersi scusare: «Lo avevo messo in guardia, lo avevo invitato a stare alla larga da quel mondo». Invece nulla. Osama, nel pieno dei suoi vent’anni, era già ribelle e anche se la donna non lo ammette era una sorta di «pecora nera» nella sterminata famiglia con una cinquantina di figli messi al mondo dal patriarca e fondatore dell’impero economico, Mohammed.
In una ricostruzione uscita sui media dopo l’11 settembre sarà sottolineato questo aspetto, un giovane che è messo un po’ in disparte ma che riesce a trovare la sua strada lottando in nome dell’Islam. I familiari ribadiscono come Osama avesse il rispetto di tutti, anche nella capitale lo stimavano e, all’epoca, qualcuno lo ha sostenuto. Un giudizio positivo che è però cambiato dopo il successo della ribellione anti-russa in Afghanistan, Paese che è divenuto la nuova patria di Osama. Infatti madre e figlio si sarebbero visti per l’ultima volta nel 1999, vicino al suo rifugio di Kandahar. O almeno questa è la versione del clan, accompagnata da un distinguo: c’è un prima e dopo nella vita tumultuosa del qaedista. Il primo periodo afghano è segnato dal patto con la guerriglia contro i russi, dal suo impegno generoso per sostenere i mujaheddin usando le proprie risorse. Quindi arriva la seconda fase, quella più dura con il lancio della sfida di al Qaeda. È la storia che Alia, ma anche le autorità saudite tendono ad accreditare. Un fratello – sì, pur sempre un fratello – che sbaglia scegliendo il sentiero pericoloso che lo porterà fino alla morte, nel maggio 2011 a Abbottabad, in Pakistan.
La mamma, che dopo aver divorziato da Mohammed si è risposata con Mohamed al Attas, giura: «Non abbiamo mai sospettato che potesse diventare un jihadista. Quando lo abbiamo scoperto sono stata molto dispiaciuta, non avremmo voluto che tutto questo accadesse».
Nell’articolo il giornalista Martin Chulov lascia spazio a un personaggio chiave dell’establishment, il principe Turki al Faisal, alla guida dell’intelligence del regno dal 1977 al 2001. L’uomo dei misteri. L’alto dirigente ricorda i tentativi per riportare Osama sulla retta via, i contatti, i colloqui con i talebani per ottenerne l’estradizione. «Era come un giocatore di poker, il volto di bin Laden era senza espressioni, non lasciava trasparire gioia o rabbia», spiega al Faisal rammentando come la guida del movimento avesse progetti anche per lo Yemen.
Le analisi delle parole si incrociano alle speculazioni. L’intervista non è nata per caso, ma è stata concessa con il placet del principe Mohamed bin Salman, il «riformista», colui che ha dichiarato di voler rompere con il passato per spingere il Paese verso un futuro diverso, lontano da certe contaminazioni e dal quell’asse denaro-propaganda che tanto ha alimentato il fronte integralista. Anche lui però dovrà fare i conti con un altro bin Laden: Hamza, 29 anni, il figlio di Osama, oggi faro dei qaedisti, ha promesso vendetta. Alia spera che si fermi prima che sia troppo tardi e i parenti sono ancora più decisi: «Non vogliamo di nuovo vivere quello che abbiamo vissuto. Se ora fosse qui gli diremmo di non ripercorre i passi di suo padre». Difficile però che il giovane leone sia disposto ad ascoltare.