il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2018
Ritratto di Antonio Tajani
Tolti Mario Draghi, alcuni cuochi e un matematico, Antonio Tajani, 64 anni, romano di Roma con ascendenze ciociare, è l’italiano più alto in grado che abbiamo delocalizzato nella vasta Europa. Sta a Strasburgo dalla bellezza di 27 anni. E a forza di dimenticarcelo è arrivato in cima a quella montagna di burocrazie, corridoi e normative che ogni mattina, da una dozzina d’anni, ci fanno scivolare nelle fauci dei sovranisti, e che da gennaio dello scorso anno lo ha incoronato nientemeno che presidente di tutto quanto il Parlamento. Così in alto che neanche lui ci crede. Il che spiega quel paio di occhi in permanenza sbalorditi. E che ogni tanto trafiggono con il loro sgomento i nostri telegiornali, mentre Berlusconi, con il sorriso sempre più incattivito dalla ingratitudine degli italiani, annuncia per lui elogi e nuovi, intrasportabili fardelli chiamandolo “il nostro gioiello”.
Una vita fa lo ha candidato sindaco di Roma contro Veltroni, schianto garantito. Poi gli ha offerto e revocato cariche dentro il partito, più un paio di collegi farlocchi, dove fare fumo, ma senza il risarcimento dell’arrosto. Il pasto garantito era a Strasburgo e lì Tajani ritornava ogni volta. Sempre ringraziando il Capo in pubblico e lo Spirito santo in privato.
Ora ci risiamo. Due giorni prima del catastrofico 4 marzo lo ha candidato premier. E Antonio si è piegato con la consueta deferenza: “Accetto con onore, presidente”. Salvo che la nuova destra, dopo le urne, è rotolata da tutta un’altra parte. È comparso dal cilindro Giuseppe Conte. E Tajani, meschino, si è di nuovo eclissato in silenzio, verso le belle cerimonie che arredano i giorni di Bruxelles.
Un mese fa il nuovo squillo di tromba: “Ti nomino vicepresidente di Forza Italia”, gli ha detto il Capo, parlandogli al telefono dal salone di Palazzo Grazioli, mentre tutto intorno cadevano gli stucchi dai soffitti e le illusioni dal cuore. “Accetto con onore, presidente” gli ha risposto da lassù. Salvo che stavolta era tutto vero, e bisognava vederlo un paio di giorni fa, il povero Antonio, precipitato nell’afa romana, stretto tra le lupe in decolté di Forza Italia e l’iracondo Renatino Brunetta degradato a peones, davanti alle telecamere del manicomio mediatico, a fare davvero il vicepresidente di un esercito che sembra clamorosamente in rotta. E per una volta – forse la prima – questo elegante figlio della Prima Repubblica, misteriosamente traslocato nella Terza, sembra adatto al ruolo, il simbolo stesso di un nostalgico declino della politica e delle competenze, cominciato tanti anni fa.
Era l’inverno del 1994. Quando suonavi al cancello di Arcore, per le primissime interviste al tele palazzinaro brianzolo che stava per scendere in campo, dietro al guardiano con Beretta ascellare, c’era lui, Antonio Tajani, vestito blu, scarpe nere, camicia bianca, cravatta sempre così stretta al collo, da suggerire un pericoloso deficit d’ossigeno che già allora gli allargava gli occhi spampanati e insieme gli rallentava le parole, come stesse per cedere a uno svenimento o a un sonno. Diceva strascicato: “’Annamo per di qua, collega” e faceva lentamente strada verso il terzo salotto, dove in tuta cachemire, le gambe accavallate, il piede vibrante di nervosismo, il Dottore, 58 anni e ancora qualche capello fuori posto, attendeva elettrico la sua ora di esternazione, masticando il bicchiere di Marie Brizard.
Leggende correvano su questo allampanato romano di Roma, Tajani con la “j”, come “pajata”, 38 anni, padre generale, madre prof di latino. Turbinosa giovinezza-giovinezza al liceo Tasso, in guerra con le zecche comuniste guidate nientemeno che dal conte Paolo Gentiloni Silveri di Filottrano, salvo innamorarsi perdutamente (mai corrisposto) di Lucrezia Reichlin, la “ragazza più bella e più comunista di Roma”. Quietandosi, gli capitò di appassionarsi al giornalismo politico, finendo in piazza di Pietra, redazione romana de Il Giornale del grande Montanelli, guidata a quel tempo da Guido Paglia, ex Avanguardia nazionale, che gli faceva battere i tacchi lungo i corridoi di Montecitorio. Luogo dove Antonio, salvo un schiaffo rimediato un giorno dal missino Pazzaglia, si riempì di amicizie, scrivendo sempre così moderato che quando Paglia se ne andò sbattendo la porta – Montanelli aveva scelto Federico Orlando come suo vice, ignorando le sue pretese – venne naturale promuoverlo a capo della redazione. Fu il solito Gianni Letta a pescarlo da quella scrivania e a spedirlo in missione permanente dal Dottore che lo accomodò per mesi nella foresteria del villone, letto a una piazza, come era già accaduto con Marcello Dell’Utri e come accadrà con Sandro Bondi, tutti argini alla sua paura del buio.
A quell’epoca Tajani era monarchico, stravaganza che noi immaginavamo estinta come certi lepidotteri grazie al gelo della storia, e che invece sopravviveva tra le rughe e l’argenteria della nobiltà romana nullafacente. Di quella desueta civiltà, Tajani, figlio unico, pariolino, ci sembrava un innocuo sopravvissuto, in balia delle improvvise accelerazioni popolane del suo Capo che tra i prosciutti di Casalecchio di Reno, aveva appena dichiarato all’Ansa che tra Rutelli e Fini, candidati sindaci a Roma, lui avrebbe scelto Fini, non ancora titolare di case a Montecarlo, ma semplice neofascista, pupillo di Almirante.
Il giorno in cui Berlusconi va a Milano a licenziare Montanelli lui non si fa vedere in assemblea, e regge il soprabito del Capo in portineria. In cambio entra in lista per la Camera, anno ‘94, ma sfortunatamente la lista di Forza Italia nel suo collegio non viene ammessa per vizio di forma. Da quella disgrazia nascono tutte le sue fortune. Tre mesi dopo viene eletto alle Europee. Sembra un parcheggio a ore. Diventa una sosta permanente. Rinnovata per cinque legislature, un quarto di secolo, durante il quale coltiva l’obbedienza e le lingue, parla inglese, francese, spagnolo, ma continua a dare del lei al Dottore e a alzarsi quando entra. Due volte diventa Commissario Europeo. La prima nel 2008, dicastero dei Trasporti, si occupa di Alitalia e Tav, trascinando danni che ancora ci riguardano. Poi nel 2010, all’Industria, dove si scorda di vigilare sulle emissioni diesel, ma dove anche si guadagna encomi per avere difeso una fabbrica a Gijón, regione spagnola delle Asturie, 250 posti di lavoro a rischio delocalizzazione, una strada intitolata a suo nome.
Zero carisma. Zero eloquio. Fisico ingombrante. Ogni tanto dalla sua lontana orbita emette dei beep che segnalano la sua esistenza in vita. Contro la burocrazia ha detto: “La nostra Europa non è quella dei burocrati”. Contro il razzismo ha detto: “La nostra Europa non è quella del razzismo”. Sull’immigrazione l’ha presa alla lontana: “La nostra storia comincia alle Termopoli, quando i greci hanno respinto l’invasione dei persiani”. E poi: “Comincia sulle isole, in riva al mare, lungo i fiumi. Secoli di scambi, mescolanza di pensieri, dialettica di idee, di arte, di scienza”.
Mescolando pensieri diventa buon amico di Mariano Rajoy, ex leader spagnolo, e di Angela Merkel, di cui ammira tutto, anche i luminosi panta-tailleur. E dunque sta sulle ruspe a Matteo Salvini, l’altro italiano che avevamo mandato lassù, e che stipendio dopo stipendio, è diventato antieuropeista. Quando si trattò di nominare il nuovo presidente del Parlamento, il partito popolare lo scelse contro Gianni Pittella, schieramento socialista, remake involontario di Godzilla contro King Kong, applausi a fine combattimento, e discorso di insediamento durato 13 minuti: “Sarò il presidente di tutti, potrete contare sulla mia totale disponibilità”. Alto concetto che sta cercando di sviluppare anche in queste ore. Ma circondato dalla cagnara di Forza Italia, va spesso in confusione. Ha appena detto che la Rai è un falso problema e che non è questione di poltrone. Gasparri non sa se ridere o incazzarsi. Il Dottore sta per strigliarlo al telefono. Ogni tanto, grazie alla cravatta, riesce a dormire. E quando lo fa sogna Bruxelles, oppure Lucrezia.