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 2018  agosto 04 Sabato calendario

Intervista a Massimo Bottura: «La mia cucina è una fabbrica di sogni da masticare»

Rileggendo gli appunti al termine dell’intervista, colpisce scoprire che in un’ora di conversazione Massimo Bottura ha parlato pochissimo di cibo. Per la precisione, ha fatto il nome di un suo piatto soltanto («Ops! Mi è caduta la crostata al limone») e ha citato le parole pomodoro, banana e lasagna (una volta ciascuno) e parmigiano e aceto balsamico (due volte). Ha invece discusso a lungo di sprechi e sostenibilità, di passioni ed emozioni, con l’entusiasmo di chi pensa alla cucina non solo come piacere per il palato, ma come luogo che fonde «conoscenza, cultura, coscienza e senso di responsabilità», i quattro fattori - parole sue - che consentono di «rendere visibile l’invisibile, di prendere un pomodoro maturo, una banana marrone e trasformarli in un piatto di valore».
Come combina questi 4 fattori all’Osteria Francescana, il suo locale di Modena eletto per la seconda volta miglior ristorante al mondo?
«L’Osteria Francescana è un laboratorio di idee, una fabbrica di sogni, la gente viene per masticare queste sensazioni. Non cuciniamo solo cibo buono, quello è scontato, siamo un tre stelle Michelin, ma vogliamo trasmettere emozioni e riusciamo a farlo attraverso la passione che anima tutta la squadra».
Come si costruiscono emozioni in cucina?
«Concentrandosi sulla parte croccante della lasagna. Mi spiego: pensi alla tradizione, alla nonna che porta le lasagne in tavola, un piatto mitico, e tutti i bambini emiliani sanno che la parte migliore è quella croccante. Quando si viene da noi, si mangiano 10, 12, 14 piatti, ma non c’è bisogno di grandi quantità, perché mangi soltanto l’emozione, cioè la parte croccante».
È questo l’ingrediente che ha convinto la giuria di «The World’s 50 Best Restaurants» a preferirla agli altri 49?
«Andrebbe chiesto alle migliaia di persone che votano nel mondo. Sono però consapevole che da mesi alla Francescana cuciniamo come mai prima. Questo gruppo sta esprimendo qualcosa di unico e irripetibile grazie all’energia creativa che ha».
Che cos’è la creatività?
« È vedere una luce nel buio. Siamo tutti in cammino, capita di inciampare, e se quando sei a terra non ti perdi nella quotidianità che ti fa arrabbiare perché sei caduto, ma riesci a cogliere un flash nell’oscurità, ecco, lì stai vedendo qualcosa che gli altri neppure immaginano, quella è creatività».
Lei, con sua moglie Lara Gilmore, ha immaginato e realizzato un progetto sociale di forte impatto, «Food for Soul», associazione no-profit per combattere lo spreco alimentare e creare mense comunitarie in tutto il mondo in cui offrire un’alimentazione sana a chi ha bisogno. Che cosa l’ha spinta?
«Il senso di responsabilità. Mia nonna mi ha insegnato che non dovevo lasciare la tavola finché il piatto non era pulito. All’Osteria Francescana pratichiamo questa etica di non sprecare nulla. Ho pensato che avrei potuto applicarla anche a Parigi o a Rio de Janeiro, due posti che ospitano i refettori, per aiutare le altre persone».
Nel progetto lei coinvolge altri chef, artisti, designer e recentemente ne ha parlato all’Onu. Sta crescendo una nuova sensibilità?
«Non c’è dubbio. È il momento in cui l’etica affianca l’estetica. Vedo una coscienza più matura, una rivoluzione umanistica. Ma bisogna continuare a comunicare, comunicare, comunicare per combattere la malnutrizione. Il nostro è un progetto culturale, non di carità».
Il fine di «Food for Soul» è molto bello, non soltanto sfamare, ma favorire l’inclusione sociale. Come convive questa missione con l’Osteria Francescana, che presenta un menù da 250 euro?
«La Francescana è un locale per 30 clienti dove lavorano 60 persone. Un rapporto di 2 a 1, chiaro? 250 euro non bastano a pagare i costi che abbiamo ogni mese. Ma la credibilità che ho conquistato con la Francescana, con anni di lavoro in cui non mi sono mai venduto a nessuno e non sono andato in tv, mi permette di realizzare eventi in giro per il mondo e trovare le risorse necessarie. Senza la Francescana non avrei mai potuto fare i refettori».
L’Accademia delle Belle Arti di Carrara le ha dato una laurea ad honorem. La cucina è arte?
«Credo che il cuoco sia un artigiano, non un artista. Meglio, un artiere, un artigiano ossessionato dalla qualità».
C’è il rischio che la cucina diventi troppo una moda?
«All’estero forse, in Italia no, perché abbiamo rispetto per valori e tradizioni. E poi in questo momento non si è mai mangiato così bene in Italia. Dall’Alto Adige alla Sicilia, ci sono 25 grandissimi ristoranti. Non buoni, grandissimi».
Quanto conta la tecnologia in cucina? Rischia di omologare il gusto?
«Conta molto per gli aspetti sanitari, di tutela della qualità degli alimenti e come aiuto contro gli sprechi. Ma non credo che possa appiattire i sapori, perché l’espressione finale dipende sempre dal cuoco e della creatività che esprime».
E la tecnica quanto conta?
«Il cuoco contemporaneo prende la materia prima e la sublima. Sa che il lavoro degli agricoltori, dei pescatori, dei casari è fondamentale per trasferire le emozioni al palato e quindi deve rispettarlo, non aggredirlo per mettere in evidenza il proprio ego. Deve soltanto usare quel tocco di tecnica che permette all’ingrediente di esprimersi meglio che in natura».