La Stampa, 4 agosto 2018
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Là dove c’era il Bechuanaland ora c’è il Botswana
L’autorevole rivista statunitense Foreign Policy ha proposto qualche giorno fa di assegnare il prossimo Nobel per la Pace al primo ministro di Grecia Alexis Tsipras e al primo ministro della Macedonia Zoran Zoev. I due leader coraggiosi non hanno posto fine a una guerra, ma a una contesa semantica che per più di vent’anni ha visto i due Paesi contrapposti sul nome della Macedonia. Atene ha sempre considerato la scelta del nome voluto dai leader di Skopje una minaccia per la sua integrità territoriale e una rivendicazione de facto sulla regione del Nord della Grecia che porta storicamente lo stesso nome.
Per anni la Macedonia si è seduta al Palazzo di Vetro con l’acronimo Fyrom (Former Jugoslavian Republic Of Macedonia – Ex repubblica Jugoslava di Macedonia), ma grazie all’accordo raggiunto sul lago di Prespa si chiamerà a breve soltanto «Macedonia del Nord». L’accordo apre la strada a una rapida adesione della Macedonia del Nord alla Nato e alla Ue ed è stato salutato dalla comunità internazionale come un episodio in controtendenza rispetto al crescente sovranismo che attraversa l’Occidente con chiusure dei confini e rafforzamento delle identità nazionali.Ma non è finita qui. Pochi giorni prima, lo Swaziland, una delle ultime monarchie assolute del pianeta, ha cambiato il proprio nome in «eSwatini». Il re Mswati III ha annunciato la scelta durante il suo 50° compleanno. Il piccolo Paese confinante con il Mozambico e il parco nazionale del Kruger continuerà a chiamarsi «la terra degli Swazi», non più usando la lingua inglese ma quella locale. Era già successo nel recente passato post-coloniale nel caso del Bechuanaland, oggi Botswana, e del Nyasaland, ribattezzato Malawi.
Addio alla Rhodesia
Ma se in tutti questi casi si trattava semplicemente di rideclinare con le lingue locali lo stesso significato, nel caso della Rhodesia fu invece necessario cancellare un pezzo di storia coloniale. La Rhodesia del Nord, oggi Zambia, e quella del Sud, oggi Zimbabwe, erano state cosi chiamate in onore di Cecil Rhodes, primo ministro della Colonia del Capo, fondatore della compagnia mineraria DeBeers e grande stratega del colonialismo britannico in Africa, con un chiodo fisso: unire il Cairo e Città del Capo con una linea ferroviaria per dare continuità ai possedimenti imperiali nel continente.
La rivoluzione toponomastica africana non si fermò qui: Kinshasa, la grande capitale del Congo, è stata indicata per due secoli nelle carte geografiche come Leopoldville, in onore a re Leopoldo II del Belgio; Ndjamena, l’attuale capitale del Ciad, non era altro che l’insediamento militare francese di Fort Lamy; Maputo ha sostituito Lourenco Marques, dedicata all’esploratore portoghese che la fondò. Ma la «decolonizzazione semantica» non ha raggiunto ancora tutto il continente. A chi capitasse oggi di passare per Blantyre, il centro economico e industriale del Malawi, e si interrogasse sulle origine del nome della città, converrà consultare un atlante scozzese, dove troverà ancora oggi la piccola cittadina di Blantyre nella contea del Sud Lanarkshire, dove nacque l’esploratore britannico David Livingstone.
Sui nomi di paesi, città e montagne si discute ancora e animatamente. Nel 2015 il presidente Obama decise di restituire al monte McKinley in Alaska (il più alto del Nord America con m 6168) il nome originale Denali, nella lingua nativa Athabasca. Ma potrebbe essere una denominazione temporanea: Donald Trump ha recentemente proposto di ridedicarlo a William McKinley, 25° presidente Usa, repubblicano, iperprotezionista e assassinato nel 1901 dall’anarchico polacco Leon Czolgosz.
In Russia resiste Kaliningrad
Spostandoci in Russia, ancora oggi non è chiaro perché tutte le città della Federazione hanno cambiato nome dopo il dissolvimento dell’Urss (Stalingrado/Volgograd; Leningrado/San Pietroburgo; Gorky/Ekaterinburg), eccetto una: Kaliningrad. La Könisberg di Kant non si è mai vista restituire il nome originale, nonostante in Russia pochi ricordino l’opaco Michael Ivanovic Kalinin, a lungo presidente del Presidium del Soviet Supremo e uomo vicinissimo a Stalin anche negli anni più bui delle epurazioni di massa.
Ma senza andare troppo lontano, la città di Torino nel 1950 decise di rendere omaggio a due delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale intervenendo sulla toponomastica: nacquero così corso Stati Uniti (già Duca di Genova) e corso Unione Sovietica (già Stupinigi). Nel 2013 si aprì in città un animato dibattito per cambiare il nome di corso Unione Sovietica per renderlo più coerente con la storia recente. Il confronto fu acceso, ma alla fine prevalse il buon senso, evitando alle 6.190 famiglie residenti di cambiare carte d’identità, patenti e documenti vari.